Smania.
Di iniziare a camminare, di vivere quest’avventura, di raccontarla, un giorno, a chi non era con noi.
Due ore di macchina per arrivare a Champoluc, le gambe immobili in posizione seduta, autostrada, caselli, poi iniziano i prati e fanno capolino le prime montagne, panorami che, per cinque giorni, ci terranno compagnia in un viaggio lento già fatto, certo, ma nuovo ancora come fosse la prima volta. E la prima volta, si sa, non si dimentica più.
Freme il paese nel giorno del mercato, fremono le gambe nel giorno della partenza, freme la natura intorno a noi. Impetuosa si lascia andare l’acqua alla cascata di Mascognaz, riconosciamo bene il fragore della caduta nel presagio e nella promessa che, per quanto in alto andremo, come acqua torneremo a valle, prima o poi. Diversi. Migliori. Più stanchi. Più ricchi. Più umani.
La prima salita nel bosco è la più dura, gambe fredde, sangue che scorre e cuore che pompa forte mentre gli spallacci dello zaino fanno l’occhiolino come a dire: “dobbiamo stare insieme cinque giorni, vediamo di volerci bene.” Gocciola la fronte e si imperlano le braccia, l’umido del bosco e del torrente che scorre arriva veloce come veloci corrono le nuvole sopra di noi. C’era il sole, quel primo giorno di cammino. Ci prendevamo le misure l’uno con l’altro, nell’attesa di qualcuno e nella rincorsa di qualcun altro. Dovevamo tararci, capire quanto duro sarebbe stato questo cammino. E lo capimmo subito: per niente. Salite e discese e alpeggi e prati in un susseguirsi lento come lentamente i nostri pensieri si alleggerivano, passo dopo passo, nell’andare in su.
Una meta a metà, un rifugio che sarebbe stato casa per una notte ma anche un lago da raggiungere nel pomeriggio e via di saliscendi, bosco ancora dopo la pausa per il panino, seduti sull’erba a guardare il paese, laggiù, diventare più piccolo ad ogni passo. Fili d’erba mossi dal vento. Con le spalle appoggiate a qualche ora prima riprendevamo forza per riprendere la via. “Sono stanco ma dimmelo tu, se il lago vale la pena.” “Te lo dico io, che il lago vale la pena. Perché lassù la montagna è montagna, le cime sono cime, le rocce sono levigate dal tempo e non più da passi umani. E se vuoi sentirti piccolo, se vuoi provare meraviglia, è là che devi andare.”
Acque chete color blu cangiante a seconda di come le nuvole danzano in cielo. Leggere increspature solo quando il ghiacciaio respira sopra di noi. E noi respiriamo e ci increspiamo con lui. Per distenderci un attimo dopo nel meritato riposo di una giornata che, a saperla così bella, l’avremmo iniziata prima. Ultima salita, una risalita anzi, verso casa. Ultimi sbuffi di fatica. Ultimi passi con lo sguardo a terra. Una panca ed un tavolino. Una birra e poi due. Cala la notte, canta la notte, tra cicale e fruscii di vento s’addormenta la vallata, si spengono le luci, respiri stanchi a far compagnia a chi resta sveglio a guardar le stelle con il naso all’insù.
Si volta la pagina del primo giorno, un’orecchietta all’angolo a ricordarci qualcosa per un domani. Occhi cisposi di sonno, bocca impastata dal vino, un respiro in quota ed il risveglio è servito. Come il caffè che, a qualsiasi altezza sempre caffè rimane. Ed è buono.
Si scende, stavolta. Iniziamo in discesa, guardinghi su dove mettiamo i piedi, ci immergiamo nel bosco guardando di fronte a noi, a quel Vallone di Nana che risaliremo per intero, stamattina, diretti alla seconda casa, quella più alta, a 2.500 metri sul livello del mare. Un rifugio dal sapor francese, Grand Tournalin lo chiamano. Risaliamo il vallone e ci perdiamo nella bellezza, il ghiacciaio alle spalle ed una bastionata di cime di fronte, camminiamo in mezzo alle mucche al pascolo senza che nessuno faccia reciproche domande. “Voi ruminate, noi camminiamo. Semplice, no?”
Non si vede ancora il rifugio ma sappiamo che è lì. Il sole picchia forte, stamattina, ma le nuvole presagiscono fresco e rumori di cielo. Rifugio. Casa, ancora. E’ presto. Troppo presto per ammosciarci in un pomeriggio seduti a bere e chiacchierare, per quello ci sarà tempo. Gocce di pioggia, uno scroscio, una schiarita, ancora nuvole ad inghiottire tutto intorno a noi. Una finestra. Da cui guardare fuori, una finestra da sfruttare per andare fuori. Ci aspetta il Monte Croce dicono che si veda così bene il Cervino, da lassù, che sembra quasi di toccarlo con un dito. “Eh già. Credeghe” (questo lo dico alla veneta-friulana).
Noi saliamo e saliamo ancora, ormai quel quasi 3.000 lo desideriamo forte, abbiamo faticato così tanto fin qua che sarebbe un peccato abbandonare la speranza di vedere qualcosa da lassù, proprio adesso. “Mola mia!” (questo lo dico al bergamasco che non c’è). Monte Croce preso. Come presa è la croce che non c’è. Buffa, stà cosa, ci sono croci ovunque ma non sul Monte Croce. Solo un panettone di sassi, un altarino ben disposto. Niente croce. Forse le nuvole si sono prese anche lei, insieme al Cervino, al Ghiacciaio e a tutto quello che doveva esserci, oggi, tutto intorno a noi. “Credeghe.”
Scendiamo. Asciutti, per fortuna. Asciutti, più o meno. Piove poco prima di rientrare in rifugio ma… sai che c’è? A stò punto fai quello che vuoi. Siamo salvi. Al caldo e sotto un tetto. Una birra in mano e una torta nell’altra. Piovi, sfogati, diluvia, scagliaci addosso l’inverno ma domani… domani no, eh! Che qui s’ha da camminare un bel po’!
Rimbocchiamo le coperte al secondo giorno che va a dormire, si oscurano i 2.500 metri, restiamo al buio che buio non è. Lampi e tuoni e gocce di pioggia a tintinnare sul tetto, respiri umidi in questa camerata, ticchetta l’orologio a rincorrere tuoni. Siamo al caldo noi, e domani vogliamo il sole.
Mucche al pascolo. Ancora. E campanacci a far da sveglia e uova e prosciutto e marmellate e creme e panini e thè e caffè e latte buono d’alpeggio. Colazione da campioni, che oggi si parte in salita! Il Col di Nanaz ci aspetta, risaliamo il fianco del Piccolo e Grande Tournalin, uno sguardo all’indietro a salutare il rifugio che si indora dei raggi del sole che cresce, un paio di corde bagnate di rugiada, la valle la sotto diventa piccola e le mucche al pascolo diventano puntini colorati tra l’erba e le rocce. Abbaia un cane, urla un pastore. La vita riprende normale e decisa, a 2.800 metri sul livello del mare.
Niente stambecchi né camosci, oggi. Strano. Sarà stata la pioggia a spaventarli, chissà dove sono accucciati. Niente animali ma solo noi che saliamo e sbuffiamo ed arriviamo al Colle, oggi sarà questo ed il Des Fontaines, due colli due valli, dall’Ayas alla Tournenche, si cambia registro, si cambia canale, cambiamo scenario e sprofondiamo nel verde, nei fiori profumati, nelle vette lontane dall’altra parte, nel silenzio di una valle che ci accoglie in un abbraccio materno. “Siamo a casa, mamma!”, sembriamo voler urlare al cielo. Un pastore ed il suo cane sul colle a guardare chissà cosa chissà dove. E noi rifiatiamo e noi riscendiamo, brontola qualche stomaco che una barretta non può saziare. “Cheneil, mon amour, nous arrivons!” con il nostro carico di formaggio e la nostra fame da camminatori, preparate le birre, preparate gli spritz che pur sempre di Milano siamo!
Il cibo buono rasserena cuore e mente, torna la voglia di camminare, Chamois ci aspetta, si torna in città a camminare con le ciabatte sul viale principale, via gli scarponi. Si stappa qualche birra. Giusto qualcuna. Sembriamo alcolizzati agli occhi dei passanti, ma siam viandanti e abbiamo sali minerali da recuperare, dicono che la birra sia la scelta migliore… Hic! Salute!
Cena pronta. Tavolata unica, come piace a noi. Ci si guarda negli occhi, ci si accarezza l’anima con lo sguardo. Ci si lecca i baffi per la fame. Ostello Bellevue. Chamois. Valle D’Aosta. Risotto alla milanese. Ma con variante toma di montagna. Sarebbe stato un affronto, sennò.
Tre piani di scale a piedi per andare in branda. La fatica più grande della giornata. Il cuore che pompa forte (ma guarda te… fuma, fuma!), il silenzio della notte ci paese. Niente auto, però, qui si arriva e ci si sposta solo a piedi. Cicale di città friniscono nel fresco di questa notte, friniscono in italiano, friniscono sussurrando perché c’è gente di città che ha il sonno leggero. Rispetto. Merci!
Iniziamo il giorno perdendo il conto dei giorni. E’ da un po’ che camminiamo, ormai, e ci aspetta oggi la salita più stronza, quella al Col Pillonet che è croce e delizia del Tour, quel Colle che ci riposta in Val D’Ayas, quel colle che ci far desiderare il panorama della partenza per una mezz’oretta buona come una notte d’amore, alla fine, troppo corta. Risaliamo carrabili immerse nel bosco, alpeggi e prati, ritroviamo rocce ed un laghetto alpino, si mostra il Cervino da lontano. Grazie, eh. C’hai messo un po’ ad arrivare, maledetto.
In fin dei conti, la salita al Pillonet ce la giochiamo in un paio di mani di dadi. Sembrava così lontano e come sempre, un passo dopo l’altro, eccoci qui. Nemmeno così stanchi. Questa gente vuole camminare e vuole camminare tanto, vuole salire e vuole farlo ancora, vuole sudare e suderà. Deviazione, colpo di genio, follia, sfida o passeggiata. LE CRESTE. C’era nell’aria voglia di strafare. Il pranzo andava conquistato, oggi. Le creste fino al Col Tantanè. Briefing. Sondaggio. Nessuno le ha mai fatte, ma cosa vuoi che siano, due crestine. Qualcuno nicchia ma alla fine s’imbarca. Prende il largo, anzi l’alto, questa barca di 22 piedi. Misura rispettabilissima per affrontare onde alte e rocce spigolose, buchi tra massi antichi e disposti a caso, salta di qua, salta di là, acculati, usa quello che hai e che vuoi ma, per carità, vieni avanti. Presto, che il pranzo è in tavola! Occhio allo strapiombo! Afferra la catena! Usa la scaletta! Ginocchia sulla roccia, mani sudate, panico controllato, bestemmie tra i denti, maledizioni a chi ha creato male questo creato e, sopra tutto, SORRISI ENORMI per ogni passo avanti che non saprei descriverli meglio se non sorridendo adesso, come uno scemo, a ripensarci ancora.
Meraviglia!
Et voilà!
Il ricordo del mese è confezionato!
Siamo dall’altra parte. Ci siamo tutti tranne due. Lui ritorna indietro, inutile tirar troppo la corda. Riconoscere i propri limiti è la maturità più grande. Lei ritorna con lui, immolandosi nel gesto più bello che la Compagnia potesse ammirare. “Torno indietro con lui, lo accompagno io, non preoccuparti, ci vediamo giù. Wiiii!!!” (fa così quando è gasato, questo strano animaletto guida che per cinque giorni sarà con noi. E disarrampica in un baleno scomparendo laggiù).
“Merci beaucoup mon amour!, ci vediamo giù per il pranzo, sbrigati che ci aspetta una bella birra gelata!”
Il resto è storia.
Di un pranzo lacrimoso e festeggiante, di un cielo azzurro che diventa blu, ci birre artigianali e sole in faccia, di tremori passati che passano in un brindisi, di gioia enorme che diventa felicità. E poi, tanto, anche se siamo a metà strada del cammino di oggi, chissenefrega. Dopo quello che abbiamo fatto possiamo permetterci corriera e funivia. Promesso che non lo diciamo a nessuno, eh.
Tra uno scivolare digerenti in paese, tra un rotolare di gomme su strada, tra una salita veloce che mai in vita mia di camminatore, eccolo: il Vieux Crest, quel rifugio da cui passammo il primo giorno senza quasi degnarlo di uno sguardo solo perché sapevamo, in fondo, che lo avremmo amato qualche notte dopo. Ed eccola qui, quella notte. L’ultima. La più stanca, la più triste, la più nostalgica. Nessuno voleva dormire, quella notte, tranne chi si è fatto fregare da sonno. Come dargli torno, dopo le creste.
Altri guardano una luna che sembra super, anzi guardano proprio LA Superluna. Illuminato a giorno quasi il creato, non basta più un amaro, ce ne vogliono due. “Una sambuca por favor!, anzi due!”
Alla quarta mi arrendo, al quarto amaro con l’amaro in bocca ci arrendiamo. La Superluna si stabilizza in cielo, era spuntata dai monti in un battibaleno, adesso è lì e lì resterà tutta la notte. E noi quaggiù a ronfare come ghiri. “Le creste, datemi le creste… un’altra cresta por favor!” farfuglia qualcuno nel sonno.
Il silenzio di questa notte profuma di legname antico. Il risveglio questa mattina sa di legname antico. Non è un sogno, siamo ancora qua. Pronti. Colazionati. Inzainati. Scarponati.
L’ultima salita, l’ultima valle, l’ultimo lago, l’ultima fatica, l’ultimo pranzo seduti sull’erba a mangiare i rimasugli di questi 5 giorni. Il pranzo dei campioni, proprio. Sulle rive del Lago Perrin, all’ombra della Gran Cima che chiama a gran voce, ma oggi no. Oggi è relax. E’ serenità. E’ acqua cheta di lago alpino su cui specchiarci per vedere se davvero, in fondo, siamo cambiati ancora. E’ l’ultima discesa nell’ultima meraviglia, è l’ultima birra, sono gli ultimi abbracci, gli ultimi saluti. Lacrime di tristezza ne abbiamo? Nostalgia, qualcuno ne vuole? Voglia di rifarlo a chi ne posso offrire che ne ho in quantità?
Abbiamo trascorso cinque giorni insieme che sembrano un vita intera.
Non avevamo aspettative, ma solo una gran voglia di andare a vivere.
Avevamo smania nelle gambe ed ora solo stanchezza.
Occhi lucidi.
Il paese freme in questo martedi pomeriggio, scorre la vita normale mentre noi rimettiamo sneakers e sandaletti e rimettiamo il culo in macchina, il sole in fronte ma dalla parte sbagliata del giorno.
Autostrada, musica a palla a nascondere la malinconia.
Gli undici del Tour Des Six.
Strana, meravigliosa gente.
Au revoir!
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