Volevo fare l’alpinista, ma avevo paura del vuoto. E volevo camminare, quel giorno, e i due successivi.
Bella la storia dei fiori. Ed i nomi, così diversi l’uno dall’altro. Nomi che danno un suono ad uno stelo, delle foglie, delle forme a disegnare quello che, semplicemente e riduttivamente, sono fiori.
Bella la storia del lupo. Magistralmente raccontata, eh. Chapeau. All’ombra di alberi alti e vecchi e pazienti con il passare del tempo. Nella frescura del bosco e di quel torrente che cantava, quella mattina, note che non riuscivamo a capire.
Bello tutto, eh. Ma io volevo fare l’alpinista. E nella paura del vuoto, mi sono innamorato del camminare. Dell’andare, senza una meta ben precisa, o con una meta ben precisa in mente. Andiamo, Giulia, per favore? Che queste gambe non le tengo più. Mi voglio infilare in quelle nuvole basse che chissà quali meraviglie nascondono, un po’ stupide quelle nuvole, a credersi eterne. Il vento vince sempre, anche quando fa paura, anche quando ulula la notte tra le persiane di un rifugio a duemila metri. Anche quando sbatte forte contro i muri, come i tre porcellini a sperare che il soffio del lupo non le faccia cadere giù.
Quelle nuvole spinte dal vento, quel vento che devo ringraziare per averci regalato la meraviglia di un sipario che si alza a svelare il Marguareis, quella punta vista da qui, così alta, la più alta delle alpi liguri, scopro dopo qualche ora, a 2.652 metri sul livello del mare. Faceva paura, vista dal lago, certo che faceva paura. Una punta nel vero senso del termine. Vai a capire come, domani, ci saliremo su.
Una cascata di nuvole dalla punta, si buttano giù a valle senza paura di cadere ma con il solo sogno di volare e, in fondo, lasciarsi andare. Chissà come ci arriveremo, domani, lassù.

E te lo dico io, come ci arriveremo. Con le nostre gambe. Con i nostri pensieri. Con la nostra voglia di far andare ste gambe, e farle andare forte. Che forte, poi è relativo assai. Basta arrivarci, lassù. E non c’è nevaio, salita ripida, funi metalliche, gradoni di pietra, rocce acuminate, vento contro. Non c’è niente di tutto questo che ci fermerà, oggi. Perché c’abbiamo perso il sonno, stanotte, a pensare al passo, al colle, alla salita verso la Punta. E perché la cascata di nuvole di ieri, un po’, è entrata nel cervello.

Quasi un miracolo, queste gambe che vanno. In su. Una fatica bestia. Le voci dei compagni indietro che chiedono di rallentare. Ok, rallento. Respiro. Quasi quasi me lo godo un po’, questo panorama, mentre aspetto. Guarda quei fiori: come fanno a crescere tra le rocce? Dove trovano la vita per colorarsi in questa primavera inoltrata che ha il sapore dell’inverno? Camosci sulla neve, giocano a rincorrersi, slittano in curve ardite, salgono e scendono veloci come volassero. Son belli, loro. Rocce colorate, non sono mica tutte grigie. Non me ne sarei mica accorto, se fossi salito veloce come sempre.
“Rallenta, per favore!” grida ancora qualcuno da dietro. “Son quasi fermo!”, dico io. E mi fermo. Al colle. Avevo paura di ciò che avrei trovato dall’altra parte. E… meraviglia! un’altra valle, altri colori, altre forme, cambia film scenario palco musica colori forme. Cambia tutto, in questi tre giorni attorno al Marguareis. Sconosciuto e remoto luogo al confine ovest di questa penisola che chissà quante ne nasconde, di meraviglie così. “Marguareis, tu m’hai rubato il cuor…

Volevo fare l’alpinista ma avevo paura del vuoto. Però non avevo paura di svuotarmi. Delle paure. Dei pensieri. Della necessità di andare. Così ho rallentato e, nel mio ritmo, mi sono fermato. Ad ascoltare il vento, ad immaginare profumi, a gustare un passo dopo l’altro anche se, non raccontiamocela, era la croce che volevo. Anzi, era la croce che volevamo. La ciliegina sulla torta. Belli i laghi alpini, i nevai che diventano torbiere, le rocce che si sgretolano con il passare delle migliaia di anni. I rododendri che cercano lo slancio per fiorire, le ultime nevi che resistono nei canali, le nuvole che corrono veloci in un cielo che, oggi, è un tapis roulant che porta chissà dove. Verso sud, forse, verso il mare che non è poi così lontano da qui, anche se non lo vedremo mai.

Ci sarà un motivo se il lupo ci sta bene, da queste parti. Il silenzio dell’infinito nulla, acqua abbondante che scorre in giù, marmotte che fischiano in allerta, aquile che svolazzano trasportate da correnti che noi, quaggiù sentiamo solo perché diventano vento.

“Ce la fai a raccontare un momento, uno solo, senza perderti via?”
“Ci provo.”

Il momento in cui iniziamo a camminare nel vallone di Malabergue, sapore di Francia in bocca, lenzuola stropicciate lasciamo al rifugio, lenzuola stropicciate ritroviamo tutto intorno, queste rocce quasi cesellate dal tempo e dall’acqua, disegni di pietra che ci vuole forza, ma tanta, per farli così belli e così vari. Ci sono prati e pascoli, ci sono vette e cime, e questa roccia solcata dalla notte e dal giorno, dalle stagioni e dai millenni e dai nostri passi, oggi. Stanchi, certo, ma non abbastanza. Più stanchi i piedi di camminare di quanto non siano stanchi gli occhi di guardare e perdersi via, questa valle che ammalia e stupisce. Ed il passo di Scarason, forse piemontese o forse francese, torniamo italici, torniamo guaglioni, torniamo a casa indovinando tracce e cercando ometti di pietra in una caccia all’uomo, bolli sbiaditi da annusare più che vedere, una traccia da seguire pedissequamente e le nuvole italiche ad abbracciarci e cercare di farci perdere. Ostinati andiamo avanti finchè non si arrendono, a tratti, quelle nuvole, svelandoci ancora cime alte ed austere e misteriose nel crepuscolare velo mattutino delle nuvole basse d’Italia.

Alzo la testa, alzo lo sguardo, mi ritrovo sotto rocce che si slanciano al cielo. Abbasso lo sguardo, lo alzo ancora in un bis di meraviglia. Niente, nuvole. Cammino, occhio a dove mettiamo i piedi. Alzo lo sguardo. Un’altra cima, altro velo che cade. E’ uno spogliarello sensuale, questo gioco di nuvole e montagne. E mi ci perdo.

Sento voci dietro di me, ci buttiamo a capofitto in un canale dove alla rinfusa qualcuno ha dimenticato massi e pini mughi, zolle di terra e cespugli senza nome, rododendri (ancora loro!) e rocce. In una fuga veloce qualcuno ha svuotato le tasche lasciando e lanciando a noi, oggi, la sfida di ritrovare la via di casa.

E la ritroviamo.
Volevo fare l’alpinista ma avevo paura del vuoto.
Così ho iniziato a camminare.
Per tre giorni mi sono perso, per due notti mi sono ritrovato.

Ricordo bene.
Rumore di vento.
Divento rumore.
Quello del cuore che si abbandona alla vita.
Quello delle gambe che scalpitano forte.

C’è un respiro solo, sincronizzato con il tempo che ha scolpito il Marguareis.
Respira piano.
Ma respira.


Le foto più belle della giornata


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