…che poi, davvero, io non lo so come abbiamo fatto ad arrivare fin qui.

Un po’ come quando, ad un certo punto, ti ritrovi in cima, sudato fradicio, sotto un sole impietoso che abbrustolisce i pori, ti guardi indietro e ti chiedi: “come ho fatto ad arrivare fin qui?

Dicono che guardarsi indietro non faccia bene all’anima. Che bisognerebbe sempre guardare avanti. A ciò che ci aspetta, a ciò che possiamo decidere, non a ciò che è stato e che ormai, volenti o nolenti, è passato. Eppure trovo consolante e di grande sprone guardarmi fugacemente alle spalle e vedere la polvere riposarsi sul sentiero dopo averci camminato pochi secondi fa. Uno sguardo indietro per guardare avanti. Un’alchimia strana, un equilibrio difficile.

Scontato e poco poetico l’incipit “sembra ieri che…” eppure sembra proprio ieri che abbiamo iniziato a giocare, senza nemmeno conoscere le regole del gioco, senza neanche sapere, in realtà, in quale campo stavamo entrando. Ma sapevamo che da lì, da qualche parte, arrivava un buon profumo. E che quella strada, quel sentiero, quei segni bianchi e rossi pennellati sulle rocce e sugli alberi portavano altrove. Altrove rispetto a dove eravamo e rispetto a dove non volevamo stare.

Sembra ieri che” abbiamo iniziato a camminare. In pochi prima, sempre di più dopo. Lo scorso anno eravamo una manciata di noi a soffiare sulle due candeline, quest’anno c’era l’aria fresca della sera d’alta quota a soffiare sulle fiammelle sfrigolanti delle tre candele. Siamo dovuti andare fuori per la rituale foto di gruppo perché dentro il rifugio non ci stavamo tutti. E l’aria aveva un così buon profumo…

Eravamo tanti a festeggiare questo terzo compleanno. Più di quanti ci aspettassimo. Ed abbiamo dovuto faticare per arrivare quassù. Avete ragione, facciamo cose difficili. I dislivelli non sono mai alla portata di tutti. Ma sappiamo che anche noi, quando abbiamo iniziato a muovere i primi passi tra erba e rocce, non avevamo il fiato per parlare e camminare. Oggi non ci basta. E ne vogliamo di più. Forse è per questo che siamo arrivati fin qui. Perché non ci siamo fermati. Non ci siamo accontentati. Non ci siamo arresi a quella stanchezza che, a volte, ti urla dritto in faccia “FERMATI, PERDIO!”. Non abbiamo smesso di stuzzicarvi per avervi accanto, ovunque andassimo. Non ci siamo stancati di raccontarvi, a modo nostro, ciò che tutte le volte, tornando a casa, abbiamo sentito sottopelle, quel calore che solo una giornata in montagna, insieme a voi, riesce a sprigionare.

Sembra ieri che” abbiamo scoperto che la montagna, in fondo, è solo un luogo ma che, se riempito della giusta anima, diventa il posto giusto per ognuno di noi. Ci siamo ritrovati vestiti tutti uguali. Tutti sudati uguali. Tutti sconosciuti uguali.
Per diventare puliti, strano a dirsi, ad ogni passo in su.
E per diventare conosciuti.
E poi, magia! Amici.

Nella maggior parte dei casi, in verità.

Ma c’è tempo. Come in ogni salita verso la cima, ognuno la approcci a modo suo. Piano piano. O correndo. O fermandosi ad ammirare ogni fiore che sbuca dalla terra con gran fatica ed un gran scrollare di terra da ogni petalo. Tanto la cima non scappa. Le occasioni, forse sì. Ma chissenefrega. A noi piace pensare che basta ricrearla, l’occasione, per riviverla ancora. Ecco come abbiamo fatto ad arrivare fin qui: rincorrendo un’occasione perduta o un’occasione che deve ancora accadere.

Un’occhiata indietro, una pacca sulla spalla per quello che abbiamo fatto e per quanta strada abbiamo camminato. E lo sguardo in avanti, per tutta quella che manca, ancora, per arrivare chissà dove. Andiamo avanti, signori miei. Ché la vetta più alta non l’abbiamo ancora presa.

Buon terzo compleanno, Compagnia.
E grazie: è stato bello soffiare sulle tre candeline tutti insieme.

 

Post scriptum. Per non dimenticare.
Un weekend da ricordare. Non è bastata la pioggerellina noiosa che gocciolava dalle foglie degli alberi a fermarci. Non le previsioni grigie di questa autunnale Lombardia scozzese. Non le nuvole basse che ci hanno rubato il panorama dei quasi 2.000 metri. Non l’erba e i sassi bagnati a far scivolare i passi sul sentiero. Niente di tutto questo ci ha fermati, né tantomeno abbassato il morale di questo manipolo di soldati della festa. Dovevamo stare bene, e bene siamo stati. Camminando. Parlando. Abbracciandoci. Soffiando candeline, bevendo, mangiando, salendo, scendendo. Accarezzando croci, facendo scorrere lo sguardo su ciò che noi, di solito, gente di pianura, non possiamo vedere. Siamo costretti a salire in alto per stare bene. Per stare meglio, anzi. Perché se in alto riusciamo a salire, vuol dire che poco ci manca per essere felici. Non un passo uguale all’altro, anche se quel tanto agognato Sentiero degli Stradini stavolta si è negato. Una lingua di neve resistente alla primavera ed alle piogge, una deviazione, un cambio di programma, una strada uguale per salire e per scendere. Poco importa, all’alto volevamo arrivare e all’alto siamo arrivati. Zaini pesanti, sempre troppo pesanti per quel poco che dobbiamo fare. Schiene incurvate, sguardo basso a scrutare l’aguzzo delle rocce, ruscelletti di pioggia come fiumiciattoli in miniatura. La festa della notte, le note sparate alte da una cassa troppo potente per una pista da ballo troppo piccola. Corpi sudati e bicchieri di vino, note nell’aria e movenze sensuali, trenini di capodanno e balli di coppia per coppie disaccoppiate. Le stelle nel cielo nero, mille puntini luminosi, il naso all’insù, una giacca troppo leggera per il fresco dei quasi 2.000 metri di una quasi mezzanotte. E l’alba dell’indomani, il cielo sgombro di qualsivoglia nuvola, il caffè bollente ed altre vette da prendere, i primi passi del mattino, la salita che s’affronta subito e le prime gocce di sudore alle 9.30 sul Sodadura. Una Madonnina che non c’è, un piedistallo vuoto, l’ennesima foto di gruppo, la discesa scivolosa ed i sassolini che si spostano per non esser calpestati, un traverso docile da ammaestrare, chiazze di neve spumeggianti nel verde, un’altra salita che non te l’aspetti anche se la conosci bene, lo sbuffare di venti bocche e quaranta polmoni che soffiano forte, il petto che ansima ed i passi che arrancano. Una croce solitaria offuscata da una Madonna vicina di casa, un ghirigoro metallico che si staglia sulle montagne sullo sfondo, linee frastagliate a disegnare cose che ognuno ci vede quello che vuole. L’ultima croce, il riposo sull’erba, il sole che scalda, foto di gruppo, bocche storte, sorrisi accaduti, una cime di fronte che diventa l’ennesima sfida, il sole coperto da nubi passeggere, zaino in spalla, giacche addosso, si rientra, la fame avanza, siamo lontani ma non così tanto da perderci in noi e tra di noi. Un piatto caldo, un vento freddo, un rifugio da salutare, qualcuno parte in vantaggio, inizia la discesa, l’ultima della giornata, quella più lunga, quella più faticosa, quella più riflessiva. Poche parole, tanti ricordi, tanti tasselli da mettere a posto, un puzzle da costruire, un ultimo brindisi da tintinnare. Qualche lacrima di nostalgia, strette di mani, baci e abbracci, la promessa di rivedersi ancora e di più. Un weekend che passa, una settimana che arriva, il fumo delle tre candeline portato dal vento chissà dove e fino a chissà quando. L’abbiamo voluto. Ci siamo stati. E bene, anche. E ci saremo. Ancora.


Le foto più belle della giornata


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