Che poi le montagne, a guardarle da quassù, sembrano tutte uguali. Si perdono le punte che puntano al cielo. Da questi 27.000 piedi di questo volo dal sud al nord di un ritorno a casa. L’ennesimo. C’era l’Etna pochi minuti fa lì dove adesso, affacciato al finestrino, c’è mare. E nuvole bianche fioccose come batuffoli di cotone.

Potrebbe essere l’altezza di un Everest o di un K2, a pensarci bene.

Bisogna pur ingannare il tempo, musica nelle orecchie, il ronzio dei motori che sparano veloce persone e vite da qui a lì. E ricordo di non avervi raccontato del Primo Maggio. Non era granché il tempo, quel giorno. Ma avevamo tutti la voglia giusta di camminare, anche a costo di prendere pioggia. E ne abbiamo presa… oh si se ne abbiamo presa, baby!

Fredda, bagnata, copiosa, abbondante. Di quella che chi lavora la terra ringrazia Dio, ma noi non eravamo lì per lavorare la terra ma per camminarci su, eh. Cielo grigio. A sprazzi cielo azzurro. Ogni tanto le nuvole si spostano svelando ciò che non possono nascondere per sempre. L’azzurro cielo del mattino in montagna.

Persi in mezzo a boschi e borghi, tra torrenti ed affluenti, ruscelli e salamandre, uccelli appollaiati su chissà quale albero a cinguettare chissà cosa a chissà chi. Camminiamo e ci scaldiamo, ci conosciamo e ci riconosciamo, il sole va e viene. E va bene così. Non una goccia, salendo. Su quel sentiero che non abbiamo mai fatto, non è la prima volta che andiamo al Casera Vecchia e non sarà l’ultima, si sta troppo bene a casa di Maria. “Variazione sul tema”, ecco cosa stiamo suonando oggi. Sul ponte giù a destra, attraversiamo il Varrone, risaliamo al borgo e poi all’altro più su. Barconcelli, lo chiamano, anche se di barche e barconi, da queste parti, neanche l’ombra. Una salita ripida che è metà della salita di oggi. Tutta d’un fiato, accompagnati dal ruzzolare liquido di un fiumiciattolo che va al mare, tra un po’ di gocce.

Rocce bagnate della pioggia della sera prima, alziamo gli occhi al cielo, va tutto bene, l’acqua scorre ma non scende. Ritorniamo al bosco, un sentiero da fiutare, poca gente, da queste parti. Tutti sulla mulattiera. Meglio così.
Ci godiamo il silenzio.
I rami spezzati dal vento.
Le foglie zuppe di umidità.
Il cinguettio degli uccelli.
Le nostre voci, i nostri passi.
Le risate ed i silenzi.

Si sta bene, da queste parti, oggi, sai? (Forse è il Tevere quello che vedo sotto di me, in questo momento, anche lui a correre verso il mare per – finalmente – riposare).

Un alpeggio. Prati in fiore. Erbe che sembrano commestibili. Due persone ci vengono incontro, salutiamo, la signora esce dal sentiero e si butta in mezzo al prato. Si china, raccoglie le erbe. Sono commestibili, si. Vecchi gesti dal sapore antico, si mangia quello che la terra vuole darci, oggi. Ed è buono.

L’ultima salita: quella alla fine della quale si apre finalmente la valle. Sappiamo che è l’ultima della giornata, lo saprebbe chiunque a vederci salire sgarzellini e affrontare l’ultimo centinaio di metri in salita sapendo che casa – rifugio – è lì, nascosto da qualche parte, ma c’è. Vediamo la bandiera sventolare al vento grigio. Il cielo tiene, non una goccia ancora.

(Sembra l’Elba quella laggiù, che l’anno scorso volevo andare a camminare ma niente, son finito in Francigena. Un traghetto solca il mare, lascia una scia che andrà via presto. Una barca un po’ più a destra, una rotta diversa. Una nave dalla parte opposta. Ed un’altra ancora. Infinito Mediterraneo.)

Il pranzo al rifugio è un tripudio di sapori e profumi, di risate e serenità, di felicità e calore umano. I bicchieri non fanno in tempo a riempirsi che sono già vuoti. Buono il vino o forse è la sete o forse è solo voglia di mettere a tacere i pensieri. Qualche raggio di sole timidamente entra dalla finestra e timidamente scompare. Non è cosa, oggi. Non torneremo a casa abbronzati. Ma torneremo a casa felici.

I saluti, gli abbracci, l’amaro offerto. Le giacche indossate, le scarpe riallacciate, i pensieri a monte, i passi a valle. Una goccia. Poi un’altra. Lo sapevamo, lo sentivamo nell’aria. Arriva la pioggia. Amen. Ci si copre alla bell’e meglio. Cerate, gusci, sacchi di plastica, chi non ha niente si copre di niente. Due gocce d’acqua non hanno mai fatto male a nessuno. Capelli bagnati, facce rigate d’acqua, trucco che scivola sulle guance, espressioni disegnate dal tempo, oggi. Ci chiudiamo nel silenzio della discesa bagnata, nel bosco che gronda e suda con noi, nel torrente che si ingrossa e fa la voce più grossa per farsi sentire meglio tra lo scrosciare del cielo. Ti sentiamo, sai?

Due ore così. Belle, anche se bagnate.
Due ore di pioggia. Ne avevamo ancora bisogno?

(Il comandante comunica che stiamo per iniziare le manovre di atterraggio a Bergamo. Cinteure allacciate, non si fuma in cabina ma quanto vorrei una sigaretta, adesso. Mi sono perso via in questo volo, a raccontare cose che non sono più. Ansietta, certo: se Dio voleva che volassi mi faceva uccello.)

E’ che a ripensare a quella giornata, ecco, mi vien voglia di continuare a raccontare. Almeno finchè non atterriamo. Almeno finchè non arriviamo alle macchine, al parcheggio, all’ultimo ponticello in pietra che separa il giorno dalla sera. Forse ricomincia a piovere, ma questo non lo ricordo con certezza. Ma chissenefrega. Siamo in macchina, ormai. Sia quel che sia. Noi, oggi, la nostra dose di felicità ce la siamo presa.

E gloriaddio e alla nostra voglia di faticare.


Le foto più belle della giornata


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