Ripresa dall’alto.
Sole di fronte. Negli occhi.
In discesa lenta, lenta.
Si libra in volo, il peso la accompagna giù.
Si avvicina la terra.

Niente musica.
Un suono.
Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

Non ci sono accenti sulla cartografia, li mettiamo noi con passi pesanti e scarponi da stagione sbagliata.

Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

Per quattro volte saliamo, per tre volte scendiamo. Fino al ritorno. E per quattro volte saliamo e per tre volte scendiamo. Fino alla sera.

Il sole di fronte. Negli occhi. Come al mattino, ma dalla parte opposta, adesso. Salivamo guardando la cima, scendiamo guardando il lago. Nel mezzo quattro gobbe che li chiamano pizzi, forme aspre smussate dal tempo ed addolcite dal vento. Milioni di anni, credo. Uno spartiacque tra civiltà ed incognita, tra costumi da bagno d’estate e spiagge da lago e dall’altra parte la natura nella sua più potente manifestazione. Ed in mezzo noi.

Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

Passi pesanti, poco ragionati, pensieri in testa imballati da gocce di sudore che scivolano giù di prepotenza e gravità. Saliamo. Ma non siamo arrivati. Scendiamo. E riprendiamo a salire. E ancora e ancora. La quota è sempre quella, galleggiamo a 1.600, pesci senz’acqua e con aria rovente. Respiro affannato e passi affannosi. Si cammina e a volte si corre, forse troppo, lo so.

Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

A sinistra la Val Grande.
A destra il Lago Maggiore.
In mezzo noi.

Fiori che di forza alzano i peduncoli al cielo, schiviamo i più belli, calpestiamo foglie secche che sono ricordo dell’inverno ma l’inverno è ancora qui. E’ rimasto sul crinale, si è fatto neve, con la riga a sinistra si è pettinato. Imbianca il nord, si scopre il sud. Il sole è alto, si accorcia l’ombra e ne facciamo poca, quel tanto che basta a proteggere niente.

Si staglia di fronte a noi un monte, poi due, in lontananza il Rosa che oggi è bianco di un bianco perenne. Sogniamo. Di salire più su, di salire più in alto, o di fermarci qui.
Manca l’ultimo pizzo, manca l’ultimo sforzo. Mollare adesso? Non ha senso, credimi. Dovevamo farne quattro, e quattro ne faremo. Non c’è croce quassù, ma un mucchio di pietre ed un bastone conficcato dentro e che ad angolo retto indica qualcosa. Chissà cosa. Un punto lontano, un punto nel nulla, un punto cardinale che ancora non c’è.

Il lago, laggiù, riflette sole e calura estiva, rimbalza sguardi e voli d’uccelli, si acquieta placido in un giorno di vento che non c’è. Pausa finita. Si stiracchiano le gambe intorpidite al sole, un sorso d’acqua a buttar giù un morso di panino, si riprende il cammino.

Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

Un po’ meno accentato il passo, adesso. Dolce è la discesa sul fianco dei monti, non più sulla cresta dell’onda ma dall’onda ci lasciamo portare a valle. A sinistra il lago. A destra niente. Finisce l’acqua. Ardono le labbra dell’arsura estiva. Borracce vuote. Caldo. Una fontana che è un miraggio, ci tuffiamo dentro bocche e mani a coppa e ripartiamo.

Lunga la discesa.

Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn. Todùm-Todèn.

Si richiude il bosco, non si rinfresca l’aria, la cappa è intrisa di umidità. Sudiamo. Scendiamo. Tagliamo. Ci proviamo. Ci perdiamo. Ci ritroviamo. Scendiamo ancora. Arriviamo.

Todùm-Todèn.
Todùm-Todèn.
Todùm-Todèn.
Todùm-Todèn.


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