E mai toccammo, né con mani né con piedi né con altra parte del corpo, quel mare di cui, per mesi, aspettavamo di sentirci parte. Fummo bravi, in effetti, ad evitarlo con tutte le forze. Complici, ad onor del vero, le circostanze. Troppo lontani e sudati una volta, troppo vicini e bagnati la volta dopo. Però, che bravi che siamo stati. Siamo gente di pianura a cui il mare fa un po’ paura con quel lento e cupo mugugnare notte e giorno. Cambiano i colori, cambia la scena, ma il mugugno è sempre lì.

Ma andiamo con ordine, per quanto si possa riuscire dopo una settimana di rimescolio di pensieri e ricordi affogati nel veloce turbinio della vita normale.

Dovevano essere tre giorni, e tre giorni sono stati. Di bellezza, di cammino, di persone, di pensieri abbandonati ad ogni passo e di panorami ritrovati ad ogni risalita. E lui, lì, davanti ai nostri occhi, a mugugnare.

Giorno uno. L’antipasto.
Tavola imbandita, forse un po’ troppo pesante la tovaglia, e scura di colore, e un po’ umida. Bagnata, a dire il vero. Troppo presto messa a tavola senza passare dal sole. Nuvole basse. C’era il mare, lì dove non c’è niente, adesso. Il Santuario c’è, ma solo perché ci sbattiamo contro con il naso e perché, così imponente, non puoi non vederlo. Immerso nelle nuvole anche lui, ma resiste nel suo esserci. Una campana. Un rintocco. Uno solo, che non capiamo neanche che ora è. Scarponi ai piedi. Si scende. Una tre giorni che inizia in discesa, esatto, ma non per questo meno faticosa. Pietre consunte da milioni di passi, muschio che cresce sui sassi, scivoloso il cammino, si progredisce lentamente. Annusiamo l’aria, cerchiamo la salsedine ma troviamo nuvole. Fino al paese, fino ai rumori della vita che scorre normale anche e nonostante la pioggia. Che bagna, certo, ed inzuppa, ma a noi non interessa.

Scendiamo e risaliamo e risalgono anche le nuvole, cessa la pioggia, bagnati eravamo prima fuori e bagnati siamo adesso dentro, non è più pioggia ma sudore che questo sentiero verso la punta ci spreme da ogni singolo poro di questi corpi, ma a noi non interessa.

Vogliamo guardare il mare ed il mare guarderemo, per tre giorni, da su, ma dentro, ma a fianco, sempre da sopra. Da una cima, da un sentiero in costa, da un vigneto terrazzato, da un cortile di una chiesa, da una strada asfaltata, da una curva che porta chissà dove e non si addrizza mai, ma a noi non interessa.

Ci infiliamo in una galleria che si apre ogni tanto a regalarci profumo e vista di mare, lui mugugna lì in basso, ruba la scena ai nostri pensieri in un valzer che dura quello che deve durare. La musica arranca come le nostre gambe, ma siamo in piano ed abituati a ben altre salite. Arranchiamo perché zoppicano gli strumenti, entra acqua in questo trombone che punta al cielo finchè smette, alla fine, perché come disse qualcuno “non può piovere per sempre”.

Birra. “Abbiamo sete, oste!”
Treno. “Biglietti, prego!”
Cena. “Abbiamo fame, cameriere!”
Letto. “Abbiamo sonno.” Senza punto esclamativo, stavolta.

Giorno due. Il primo.
Sapevamo che sarebbe stato un pranzo lungo come lungo sarebbe stato il cammino, quel giorno. E nessun km in meno, forse qualcuno in più rispetto a quanto scritto nel menù. Non si fanno sconti, non si salta un piatto.

La meraviglia.

Di trovarsi il mare davanti ogni volta che giriamo lo sguardo a destra, sempre in basso, sempre distante, la via dell’Amore la lasciamo agli innamorati. Siamo in cerca di amore, noi, e lo cerchiamo in alto, lì dove l’aria è pulita e la fatica è tanta. Cinque santuari dovevano essere e cinque santuari abbiamo incrociato. Solo un rintocco di campare, alla mezza del giorno, ci sorprende con un panino in bocca e qualche vescica ai piedi. E siamo ancora a metà.

Abbiamo attraversato boschi e sentieri aperti, siamo saliti e siamo ridiscesi, abbiamo riempito gli occhi di bellezza e le narici di profumi che noi, gente di pianura, non sentiamo mai. Dovevate esserci, signori miei! Partiamo con il sole che si alza da dietro i monti e arriviamo con il sole che si tuffa nel mare. Un colore, quella palla di fuoco che va spegnendosi, che non saprei descrivere. Proprio no. Ce lo gustiamo tutto, quel tramonto, mentre scendiamo in paese verso il capotreno che fischia la partenza.

“Te lo ricordi quel vigneto in mezzo a cui abbiamo camminato oggi?”
“E quanti asparagi selvatici abbiamo raccolto, te lo ricordi?”
“Perché, vogliamo parlare di quello spicchio di mare incastonato tra le foglie di fico d’india? E dove siamo, al Sud?”
“Io comunque in quel panorama ci ho lasciato il cuore, sai…”

Colorati, i paesini delle Cinque Terre. Artisti, i costruttori di queste parti. Giocano con i colori, loro che il mare lo vedono cangiare ai raggi del sole o al brillar della luna, loro che del mare non hanno paura. Una casetta spinge sull’altra, il rosa si mescola all’arancione, il blu svetta in alto, il verde pressa di lato. Dal basso fa capolino un giallino sbiadito mentre il bianco, neutro, arbitra questa partita che finirà, com’era prevedibile, con uno zero a zero e palla al centro. L’unico che vince qualcosa, oggi, è lo stupore. Per quello che abbiamo visto, per i km che abbiamo camminato, per avercela fatta anche stavolta nonostante l’ultimo santuario, come fosse l’ultima vetta, sia stato il più duro da prendere. Ma… quel tramonto, chi se lo scorda più?

Notte. Fischio d’un treno. Vino. Si brinda, stancamente, ad un giorno che è stata una battaglia. Vinta, ovviamente. A letto, truppa.

Giorno tre. Secondo e contorno.
Una lenta camminata su un sentiero vecchio di 500 anni, un lento lavorio di piccone e pala e forbici da giardiniere per recuperare la strada che i nonni dei nonni dei nonni percorrevano tutti i giorni per portare chissà cosa da chissà dove a chissà dove. E avevano un buon motivo per farlo. Strapiomba sul mare in alcuni punti, ma mai da far paura. Mugugna meno, oggi, sotto un sole che si tinge d’arancione e lasciamo le nuvole in alto e ci buttiamo a capofitto in una corsa sfrenata, o meglio frenata, su quella scalinata tanto celebre quanto veloce. A scendere, ovviamente. Ci hanno promesso il mare, costumi nello zaino ed infradito e crema solare. E invece, la beffa. Una frana che mangia il sentiero. Il mare che, anche oggi, rimane lontano. Fine della discesa. Di 1.000 gradini ne abbiamo mangiati 800, più o meno. Fine dei giochi. Foto di gruppo, si mangia alla fine della risalita.

“Ma tu lo sapevi che il sentiero era interrotto?”
“E se te lo avessi detto, tu avresti fatto tutta questa fatica di scendere e risalire?”

Ma ne è valsa la pena comunque, di scendere per annusare il mare un po’ più da vicino. E quella foto parla chiaro, alle nostre spalle ci sono tutte le Terre che, in tre giorni, abbiamo attraversato.

Al giorno tre non seguirà il quattro. Dopo il secondo e contorno non arriverà il dolce. Finisce troppo presto questo pranzo quasi pasquale e troppo presto risiederemo in macchina puntando a nord, a casa, alle lavatrici da fare e ai ricordi da sistemare.

Non so voi, ma a me è rimasto sulle labbra un profumo come di… Mare.
Quello che, però, non fa più paura.
Quello che, oggi, non mugugna più.
E sorride, in ogni goccia, di felicità.


Le foto più belle della giornata


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