Passa un aereo sulle nostre teste, a qualche migliaio di metri da noi. Chissà se ci vedono, da lassù, occhi di bambino e la testa appoggiata al finestrino, un ronzio sordo sotto ai piedi, una poltrona neanche troppo comoda su cui sedere, viaggiando così veloce da sembrare di stare fermi.

Una scia resta indietro, qualche minuto e non c’è più, ricordo di qualche chilometro passato, ricordo di un momento in cui sembra di scorgere qualcosa, quaggiù, piedi veloci e gambe forti, cuori decisi ad andare oltre, lasciano una scia, s’alza la polvere di un sentiero poco calpestato, rocce antiche e bitorzolute, pinnacoli svettanti al cielo. Sembrano capocchie di spillo, viste da lassù. Sembra tutto uguale il mondo, visto da lassù.

Non sentiamo rumore se non del nostro respiro mentre procediamo veloci su questa strada, in questi boschi che si aprono e chiudono sulle nostre teste come onde del mare anche se vento, oggi, non ce n’è. Non sentiamo rumore se non le risate di chi non ha paura di sprecare fiato per stare bene, di chi ride per esorcizzare la paura, di chi ride per non piangere per la fatica che fa, di chi ride per prendere in giro la vita. Ché a prenderci troppo sul serio, si sa, finiamo per farci del male. Ma oggi no.

Passa un aereo sulle nostre teste, occhi di bambino incollati al finestrino, sembra un mondo lontano ma è da lì che veniamo, nessuno nasce volando ma tutti impareremo a farlo, prima o poi. Chi con i piedi, chi con i sogni, chi con il cuore. E chi non volerà mai, troppo legato ad una terra che, prima poi, ci manderà tutti via. Ma oggi no.

Ci avevano detto che sarebbe stata dura, che quel sentiero per il rifugio ti guarda in faccia con occhi di sfida, che è esposto e sdrucciolevole, che le catene in alcuni punti sono da usare. Ci avevano detto che sarebbe stata lunga, che quei 1.400 metri di avvicinamento al cielo non scherzano mica, che la neve a nord sarebbe stata ghiaccio, che “stai attento a quello che fai”. Ci avevano detto un sacco di cose. Ne abbiamo fatto tesoro. E ce ne siamo fregati. Perché questa compagnia viaggia veloce senza lasciare scia, questo sentiero scorre veloce sotto i nostri piedi, queste Grigne che digrignano denti e pinnacoli al cielo non fanno poi così paura, viste da qui.

Si allontana l’aereo, si avvicina la meta, si fa sentire la fatica. Non siamo supereroi, in fondo, ma solo gente che cerca, quel giorno, la rivincita dalla settimana. Dal lunedì al venerdi in difesa ma il sabato si passa all’attacco, in pista di decollo, ci hanno promesso la Luna e la Luna ci prenderemo. Oh yes.

Viaggiavamo veloci quel giorno, divorando chilometri e metri di salita come caramelle, niente maschere di carnevale ma vestiti d’ordinanza, volevamo vincere, volevamo farlo tutti insieme, volevamo riempirci della gioia di vedere il Rosalba schiantarsi davanti ai nostri occhi in un frontale di meraviglia. E così fu, più meno in zona Zucco Pertusio (“Ci saliamo? No dai, un’altra volta…”), al civico 2, testimoni zero, neanche un camoscio, neanche un corvo, forse neanche Dio, in quel momento, guardava verso di noi. Constatazione amichevole. Conciliamo?

Pranzo veloce, il calore del rifugio, il sole che ci cade addosso a pioggia ed attorno a noi un mondo di rocce e neve, di sassi ed anfratti, di canali e pinnacoli. Le Grigne, un mondo a parte, un amore possibile.

E rotoliamo giù a pancia piena ed occhi gonfi di felicità, resta qualche foto e qualche abbraccio, amici nuovi conosciuti sui gradini del rifugio, rotoliamo giù ché la strada è lunga e scivolosa, scivoliamo veloci verso il lago controllando passi e respiro, risate e silenzi, tutto quadra, adesso. Tutto.

E’ sabato baby, facciamo qualcosa domani, che queste gambe non ne vogliono sapere di fermarsi?

E quante cose voglio raccontarti di oggi, baby, e quante cose vorrai raccontarmi tu?

“Andiamo?”
“Andiamo.”

E quell’aereo, lassù, è già oltre le montagne. Come noi.


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