Trema la terra, pulviscolo nell’aria, si procede a fatica ma caparbiamente andiamo avanti, da lì siamo entrati e di là dobbiamo uscire. Si respira roccia, qui dentro. Il sole corre veloce in cielo, oggi, mentre gocce di sudore scorrono sulla pelle. Mille sfumature di pelle, qui sotto la montagna, in un buio rischiarato solo dalle lampade ad acetilene, fiammelle guizzanti mentre rintoccano i colpi dei martelli e picconi, delle zappe e dell’aiuto pneumatico che sbuffa aria dal tubo. Dobbiamo avanzare ed avanzeremo, in questo inverno freddo, qui al Pasubio, siamo diversi ma fratelli, ci hanno detto di farlo per la patria ma lo facciamo per noi e per chi, dall’altra parte della roccia, ci aspetta. Lo faremo una volta, due, tre. Dodici, tredici, quattordici. Ventinove, trenta, trentuno. Cinquanta, cinquantuno, cinquantadue. Cinquantadue volte. In un buio denso, che soffoca. Cinquantadue direzioni, angoli incerti. Ogni calcolo un rischio. E ogni passo, una sfida. Perché da qui, dobbiamo uscire. I calcoli sono stati fatti, certo, qualcuno ci ha detto che è possibile e noi, perdio e per la patria, lo faremo. Siamo siciliani, trentini, lombardi, friulani, piemontesi, umbri. Siamo italiani, ci capiamo al volo, bastano sguardi al tremolio delle lampade, dobbiamo procedere perché il sole ci aspetta, di là dal muro. E chissà cos’altro, e chissà chi altri.
E’ una storia di tenacia e follia, di ingegno e passione, di amore e di fatica, di lacrime di gioia e di pianti di tristezza, è la storia delle Gallerie, è la storia di esseri umani che non temono niente, appollaiati quassù sul Pasubio, su cenge strapiombanti. Lo fanno per non scomparire, per imprimere il loro nome nella roccia e nella storia. Lo fanno per ricordare. Per non scomparire. È la paura più grande, qui. Più del freddo. Più delle vette. Più dei colpi di mortaio e di questi proiettili che fischiano nell’aria, traiettorie disegnate a casaccio da bocche di fuoco grandi e piccole in un coro straziante che la notte, forse, tace un po’.
Una sigaretta brucia nella notte, qui nella trincea. Un metro quadro ciascuno, il nostro piccolo mondo dentro il quale, per chissà quanto ancora, dovremo sentirci a casa. Non cani come animali domestici ma topi, zampette piccole a scalpicciare nel fango, artigli sudici come i vestiti che indossiamo da troppo tempo ormai. La notte, però, quando le nuvole svelano il cielo, è bello, quassù. Milioni di stelle e la via lattea, una stella per ogni pensiero, una stella per ogni preghiera di riuscire a ritornare a casa, prima o poi. Quella vera, quella dove aspettano le donne che pregano, tutte le notti, di riabbracciarci ancora.
“Cara mamma,
fa freddo stanotte, qui al Pasubio. Ho addosso tutto quello che potevo indossare ma non basta. Mi trema la mano mentre ti scrivo queste parole e non so più se per il freddo, la stanchezza, la fame o la paura. Grazie per l’ultimo pacco che sei riuscita a farmi avere. Ho diviso il salame con i compagni, il formaggio aveva fatto la muffa ma poco importa per noi, abituati a ben altro cibo, quassù.
Di quelli che siamo partiti, che abbiamo iniziato a scrivere questa pagina di storia, siamo rimasti in pochi. Stiamo più larghi in trincea ma il fango non scalda e le preghiere non bastano a tenerci vivi eppure dobbiamo farlo. Per noi. Per chi ci aspetta a casa. Per te, per Rosetta, per papà, per mia sorella Antonia e per il paese intero. Qui lo sappiamo cosa vuol dire aspettare il ritorno di qualcuno. Al mattino, quando sta per sorgere il sole, attendiamo con ansia l’ombra del compagno di ronda. E siamo felici quando ritorna, sai? E dev’essere la stessa sensazione vostra quando ricevete una mia lettera dal fronte.
Cara mamma non preoccuparti per me. Anche se fa freddo ci sarà sempre un fuoco tenue a scaldarci, anche se abbiamo fame ci sarà sempre un tozzo di pane o della polenta che arriva dalle retrovie. Hanno costruito 52 gallerie per fare in modo che noi, quassù, non ci sentiamo soli né abbandonati da Dio e da voi.
Adesso ti saluto e ti abbraccio forte, la candela sta per spegnersi e ne abbiamo bisogno ancora perché la notte, quassù, è lunga assai. Spero che questa mia lettera ti arrivi e ti arrivi intera insieme alla mia voglia di rivedervi tutti, famiglia mia.”
Migliaia, milioni, miliardi di lettere a formare parole e migliaia, milioni, miliardi di lettere a formare un libro che non basterebbe una vita intera per leggerlo tutto. Il grande romanzo della Storia, quella vera, quella dimenticata, quella che va ricordata e va impressa nella memoria.
Siamo tutti Giovanni, Alfredo, Antonio, Dario, Carlo, Domenico, oggi, quassù sul Pasubio.
Siamo tutti in piedi ad ascoltare il racconto della storia mentre due denti si guardano, uno di fronte all’altro, in una bocca sdentata che oggi parla la stessa lingua. Sono gallerie e trafori, sono buchi e ripari, sono ricoveri e pertugi a dare respiro alla montagna, oggi. Un dedalo, un labirinto, un groviglio di accenti e dialetti. Un “daje” rincorre un “amunì”, un “pota” sgambetta un “belin”, un “freghete” stuzzica un “ajò”. E così via, ognuno con il suo ma ormai, qui dentro, ci capiamo tutti. Scaviamo. Buchiamo. Perforiamo. Ed ogni tanto, però, abbiamo anche bisogno di respirare aria pura. Nicchie per i cannoni ed i mortai, ecco cosa vogliono gli ingegneri, ma per noi che scaviamo come topi dentro la montagna sono finestre sul mondo. Abbiamo bisogno di vedere cosa resta la fuori tra una galleria ed un’altra, abbiamo bisogno di vedere che il mondo non è finito, ancora. E tra una galleria ed un’altra si scopre la natura, la montagna, i prati scoscesi, i torrioni ed i pinnacoli, i fianchi del monte che sembrano quelli ben fatti di una bella donna. Sono fotogrammi, diapositive che ci ricordano che il mondo, fuori dalle gallerie, esiste ancora.
Cala la notte, qui sul Pasubio.
Si accende il cielo di mille stelle che punteggiano la neve bianca su cui riflettono la luce, un altro giorno è andato, grazie a Dio siamo ancora qui. Sbuca fuori una fiaschetta, gocciola grappa sulle gole secche, a bere neve sciolta, dopo un po’, rimane ben poco nello spirito. Siamo stanchi ma ci siamo. Esistiamo ancora e ancora domani potremo fare qualcosa che racconteremo, un giorno, a qualcuno, laggiù a casa. Perché ritorneremo. Perché speriamo di ritornare. Perché dobbiamo riportare a valle la memoria di quello che abbiamo fatto quassù, di questi giorni e queste notti a morir di freddo, a mangiare polenta e poco altro, a scavare, bucare, ravanare nelle rocce a cercare aria, un filo di luce tremula dall’altra parte del pulviscolo.
Perché la stessa cosa stanno facendo quelli che un giorno chiameremo fratelli, uniti tutti sotto una stessa bandiera, un’insulsa guerra per conquistare un fazzoletto di terra, un’insulsa guerra che ha voluto qualcuno che non sappiamo nemmeno che faccia ha.
“Mamma,
sono ancora qui. Nel freddo di un inverno che non vuole finire più. Io, che la neve l’avevo vista una volta sola in vita mia, quella volta in campagna, gli ulivi imbiancati da una cosa strana che era festa e gioia per noi bambini, tutti fermi con il naso all’insù a guardare quest’acqua cristallizzata venire giù.
Sono ancora qui con i miei compagni, quelli che non ho scelto ma a cui voglio bene, quelli a cui ho promesso di guardar le spalle e di riportarli giù, quando tutto questo finirà.
Fa freddo quassù ma ci scaldiamo, in un qualche modo, in una galleria o in un ricovero di fortuna, tra queste trincee che altri hanno scavato e che a guardarle dal cielo sembrano strade. Un reticolo quasi a caso, un disegno di cui bisogna indovinare il senso, se un senso ce l’ha.
Vorrei ritornare e farlo presto, vorrei tuffarmi nell’acqua del mare, la montagna è bella senza spari e senza scoppi, senza massi scartati che rotolano giù dai canali, senza fiumi di neve che si lasciano cadere. Sto attento, promesso, che lassù io non ci voglio finire.
Tornerò presto, promesso. E tornerò con le mie gambe. E con i miei compagni. Io ritornerò.”
Si desta il sole del mattino. Sale veloce in cielo a scaldare piedi, gambe, pelle.
Le prime luci del giorno si riflettono sulle rocce, e tra le pareti scavate dai picconi e segnate dal tempo, sentiamo il respiro freddo e ruvido del Pasubio. Cammineremo ancora per ore, immersi nella montagna, sotto lo stesso cielo che ha vegliato su chi ha camminato su questi sentieri molto prima di noi. Qui, in cima, la vista si apre infinita, ma ciò che ci resta addosso è l’emozione preziosa della Storia.
Qualcuno si lascia sfuggire un respiro che è a metà tra il sollievo e l’incredulità. Del Pasubio avevamo letto, immaginato, ma essere qui è diverso. Sentiamo sotto i piedi la roccia dura e, insieme, le voci di chi ha scavato queste gallerie e chiamato 'casa' queste trincee. Ci guardiamo negli occhi, compagni di viaggio, e in un attimo capiamo che portiamo via qualcosa di più di due semplici giorni di cammino. Portiamo via il ricordo di quelle vite, delle promesse incise nella roccia e mai dimenticate. Camminando per questi sentieri, sentiamo che i nostri passi sono eco dei loro. Siamo anelli di una catena lunga un secolo, una storia che ci accoglie e ci cambia.
Il Pasubio ci ha parlato.
Noi ascoltiamo.
E torneremo.
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