Alla fine si spiega tutto.
E’ la signora Anna la chiave della giornata.
Lei, “mi son veneta, ciò”, incontrata per caso in un bari di Quarona, paese di valle, piccolo piccolo, con una stazione che non staziona più ma con il suo buon Bar della Stazione come in ogni stazione che si rispetti. Poco importa se i treni non fermano più, da quelle parti.
C’era un tempo in cui lo facevano, quando la signora Anna, veneta di origine, romana di passaggio, valsesiana di finitura, quel treno lo prendeva per andare in su, o in giù, verso chissà dove e chissà perché.
Qualche anno in più di noi, qualche dente in meno di noi, cervello fine, arguzia abbondante e risata contagiosa. Barzellette a capotavola, un cartone della pizza in mano che sfarfalla nell’aria e quel trancio, poverino, sballottato qua e là in volteggi aerei che nemmeno le ballerine del Bolshoi.

E’ Anna la chiave di tutto, Di quel nostro gironzolare ai piedi e sui piedi del Capio a cui basta cambiare una vocale, accentarla, per capire il senso di tutto. Capio. Capìo, mi correggono dalla regia. Non “a tu capìo”, ma “gheto capìo”. Grazie, regia.
Ed io ho capito, oggi, a distanza di qualche giorno, quando le foto sono state sistemate ed archiviate, quando le risate sono acquietate, quando le gambe sono riposate e gli occhi guardano avanti, al prossimo monte che non aspetta altro che le nostre gocce di sudore ad abbeverare sentieri altri.

Anna, quanto ridere, signora mia. Macchietta di paese, inutile provare a resistere alla tua risata e ai tuoi racconti. Il Papa, Roma, Venezia ciò, Quarona, chissà perché sei finita qui. Questo non te l’abbiamo chiesto. O forse la risposta si è dispersa tra le risate di una tavolata d’aperitivo, tra gocce di spritz e birre medie, tra pizzette e panini, tra ricordi e passi di danza accennati con vergogna perché le gambe, a quell’età, vorrebbero andare più di quanto non riescono a fare. Vabbè, apprezziamo il gesto e l’impegno.

Gheto capìo, Capio, chi t’abbiamo portato quassù?
Li hai visti bene in faccia, questi qua? Che non mollano una virgola dei  tuoi sentieri per capre, che non saltano un passo del tuo farci ravanare per ritrovare la via, che non distolgono lo sguardo nemmeno davanti a sua maestà il Rosa che li guarda dritti negli occhi con… sfida? E’ sfida, quella che vedo, o solo ammirazione per aver avuto la voglia di venire fin qua, mille e quattrocento metri in salita per arrivare ad una manciata di chilometri dalle tue pareti bianche e a quel puntino marrone, lassù, che chiamano amichevolmente “la Capanna”?

Era lei la scusa per far muovere culi e gambe, stamattina. Quel profumo di pizza d’alta quota che abbiamo provato a respirare e riconoscere nell’aria, anche se era solo panino al prosciutto e pasta fredda e barrette e cioccolato e noccioline al wasabi? Qualcuno l’ha sentito, il profumo di margherita?

Ruderi. E alpeggi abbandonati. O solo lasciati a riposare per qualche mese in attesa della prossima estate. Di segni del passaggio delle mandrie ne troviamo molti, per prati e per sentieri. Non dev’essere passato molto tempo, in fondo.

Ruderi abbandonati di vecchie miniere e dimore di minatori. Per loro di tempo ne è passato molto, invece. E si sgretolano, anno dopo anno, nevicata dopo nevicata, raggio di sole dopo raggio di sole. In un progresso che svuota gli alpeggi e riempie le valli, accarezziamo i muri che si lasciano andare perché tanto, contro il tempo, è inutile lottare. Le miniere abbandonate sono buchi sul fianco della montagna che non risuonano più dei colpi di piccozza, né più muli a trainar carretti, né più braccia sudate e facce ingrigite dalla polvere di scavo a guardarci passare, noi, oggi, mentre cerchiamo di capire cosa il Capio, o Capìo che dir si voglia, vuole spiegare.

Anticima e cima, 2.172 metri sul livello del mare, separate da una crestina attrezzata da un filo che sembra buono solo a stender la biancheria, occhio a come metti i piedi che volare giù, qui, è un attimo. Una crocetta bassa ed una campana, bassa anche lei, sembrano abbassate di proposito per resistere al vento che qui, d’inverno, soffia dritto dal Rosa attraversando valli, prendendo forza. Conviene stare bassi, credimi. E quando il vento soffia ed il sole si nasconde, come mentre addentiamo il meritato boccone, è a terra che dobbiamo stare per non volare giù. Siamo un gregge che si stringe a raccattar calore mentre il sole si allontana dietro le nuvole, ne avevamo goduto abbastanza, troppo forse ha deciso qualcuno, lassù. Ultimo boccone al volo. Si scende. Ci si perde e ci si ritrova su una traccia che alla fine, per tornare sul sentiero vero, dobbiamo stringere ciuffi d’erba con le mani e salire dritti, linea retta sul fianco di un monte che non ha nemmeno un nome.

Scendiamo e torniamo a noi, ritroviamo gli alpeggi ma li guardiamo da dietro, gli passiamo a fianco, li lasciamo andare come loro lasciano andare noi. Una deviazione, un anello s’ha da fare, un borgo abbandonato dal progresso, le case e la  fontana, un cartello con su scritto “Bar” ma il bar, qui, chissà dov’è. La chiesa con il suo campanile che chissà se suona ancora, qualche volta l’anno. Alberi di mele con mele mature da raccogliere, buone quelle mele, altro che la Coop. Piccole, saporite. Rosse. Come le rocce dei monti da queste parti, ruggine su metallo fatto roccia. Le miniere, ecco perché.

Anna, tu ne capisci di funghi?
E’ un porcino, quello che fa capolino dalle foglie?
Ma davvero ne esistono di così grandi?

E tu, Anna, li sai cucinare i funghi?


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