Una scellerata idea, il canto del cigno di un anno che si commiata, una possibilità sospesa tra il farcela e il no. Sapevamo cosa cercare, con il naso puntato alle stelle che, nelle nubi mattutine, si nascondono. La meta era là, celata da qualche parte. Il fiuto buono non manca, a questi cani da caccia alla croce di vetta. Scarponi ai piedi e bacchette in mano, fiato corto ai primi passi, in attesa che i polmoni si acquietino e si abituino all’aria rarefatta di queste altezze. C’era da prenderne tre, quel giorno.

Monte di Zanetti, lo chiamano. Sulle mappe a volte compare, come un’isola del tesoro che si svela solo a chi ci arriva. Monte Zulino, subito dopo. Poco più di un rialzo sul terreno, tra rocce e muschio, tra neve, fogliame e arbusti che, potessero, andrebbero altrove. Monte Campagano, il terzo. Quello per cui iniziamo a camminare, in quella fredda mattina di fine anno. Un anno che sbuffa fuori il fiato dopo averlo trattenuto troppo, lassù, tra le vette.

Zanetti. Puntiamo tutto e subito su questo panno verde di un gioco che conosciamo bene. Ma qualcuno si è divertito a cambiare le carte in tavola. Forse la notte, forse il mese prima. Forse negli anni e nel tempo le regole si sono sbiadite, come i bolli blu che annusiamo nell’aria prima ancora di vederli: su un tronco, su una roccia, su un muretto che qualcuno deve aver messo in piedi chissà quanti anni fa. Qui la natura si riprende tutto. I bolli, i sentieri, le tracce.

La traccia, quell’unica traccia che seguiamo su dispositivi elettronici illuminati a giorno, appare come una linea retta, più o meno, uno zig-zag nel bosco e sul greto di un torrente secco. Secco come le nostre gole, a respirare aria umida e profumo di felci e rocce asciutte.

Ci incaponiamo. Continuiamo a salire. Se c'è traccia sul display, qualcuno deve averla disegnata. Non è giorno di resa, non è tempo di dietrofront. La muta è dura di testa e agile di gambe. La giornata è buona. Mani a terra, sulle rocce, acciuffiamo ciuffi d’erba per darci quella spinta che, su queste pendenze, i bastoni non danno. Arpioniamo con le unghie le rocce che ci separano dalla vetta. Vogliamo arrivarci. Chissà se ci arriveremo.

Una sassaia fuori dal bosco, neve vecchia ma non troppo sotto i piedi. Si scivola, si svicola tra tronchi abbattuti, tra massi coperti di nevischio. Il cielo si incupisce. Socchiudiamo gli occhi, non per la luce, ma per l'ombra che cala su di noi. Il gruppo si sgrana come un rosario andato male. La fatica si fa sentire, il tempo stringe. La salita si fa ostinata, poi si confabulano scelte. Alcuni spingono fino a Zanetti e Zulino. Il resto della muta si ferma. Si torna indietro.

Torniamo, sì. Ma non per la strada dell'andata. Occhi fissi sui bolli sbiaditi, seguiamo una traccia nuova, la speranza di un'uscita meno ostile. Poi, d'improvviso, la traccia muore. Non ci resta che scendere lungo un torrente, tra salti di roccia sempre più alti, scivolando al rallentatore sui culi appoggiati alle pietre, sniffando l'aria alla ricerca di un sentiero. Ma il bosco, attorno a noi, altro non è che un ripido pendio dove neanche i cinghiali ci camminerebbero dentro.

“Che bell’inganno sei, anima mia,
e che grande questo tempo,
che solitudine, che bella compagnia.”

Dedicato alla montagna. E al mannaggiannoi che potevamo stare a letto, oggi.

Salgono i primi, scendiamo noi. Lo sapremo soltanto alla fine la pari fatica che abbiamo portato a casa tutti quanti. Salire o scendere, a volte, costa uguale. Ce lo racconteremo più tardi, davanti a una birra, a impresa finita. Partire siam partiti. Arrivare, siamo arrivati. Stanchi, infangati, con qualche buco in più nei pantaloni. Siam fatti per camminare, non per strisciare di culo, d’altronde.

Nevica, fuori dal bar dove ci siamo rintanati a leccarci ferite e ricordi, a scherzare su una giornata che, volente o nolente, resterà sotto le unghie come la terra che per tutto il giorno abbiamo calpestato. Ovviamente fuori dal torrente in secca abbiamo trovato una traccia nel bosco. Occhi lucidi di emozione e di graziaddio. Sospiri di sollievo. Avanti veloce nel bosco, verso le case, verso la civiltà.

Ovviamente sopra le creste gli altri hanno trovato pane per i loro denti. Zanetti e Zulino, ma niente Campagano. Quello ce lo teniamo per la prossima volta. Abbiamo bisogno di una scusa o di un buon motivo per tornare.

Ovviamente ci siamo ritrovati tutti quanti a berci su e a raccontarcela, addirittura ridendo.

È passato più di un mese da quella giornata.
E sotto pelle rimane ancora un po’ di sudata meraviglia.
E sotto le unghie ancora un po’ di terra.


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