Attacchiamo il sentiero. Ci lasciamo alle spalle il ponticello di pietra.
Assaggiamo la prima terra con le scarpe.
All’improvviso, una voce esplode nell’aria: “Ehi! Voi! Dove state andando? Se andate all’Ariaal state sbagliando tutto! TUTTO!, si affaccia urlando così da una casa un signore vestito da montagna, com’è giusto che sia da queste parti.

“Ma abbiamo la traccia che indica chiaramente che il sentiero sale da qui!”, rispondiamo noi mentre il dubbio si insinua nella mente. Vai a fidarti della tecnologia, a volte. E se avesse saputo che non solo andavamo all’Ariaal, ma da lì avremmo proseguito fino al Casera Vecchia, come minimo ci avrebbe presi per matti. E sono pronto a scommettere che quel pensiero non è rimasto tanto a lungo lontano dalla sua mente.

“Quel sentiero non è bello, lo abbiamo appena ripulito ma non è agevole, se tornate indietro trovate la mulattiera che sale comoda fino al rifugio”, rincara la dose mentre sguardi preoccupati rimbalzano tra  noi.

“Tornare indietro? Ma giammai!”
Questo però non glielo dico. Mi limito a pensarlo.
E poi se avessimo voluto fare qualcosa di agevole saremmo andati al centro commerciale a comprare i regali di Natale, non ti pare?

Testa bassa. Un passo dopo l’altro. Via che si va.

Inizia così il racconto di quella che, a conti fatti sarà una delle giornate più memorabili della Compagnia. Almeno per me che questa storia mi accingo a raccontarla.

Siamo in tanti, oggi. Domenica quindici dicembre duemilaventiquattro. Fa freddo in quel di Premana. E’ inverno, cosa ti aspetti? Un cielo terso sopra le nostre teste, non una nuvola, lo sguardo si perde così come il calore del corpo, se on ci muoviamo. Il solito “cerchio dell’amicizia”, il giro di presentazioni, nomi detti a denti stretti un po’ per il freddo e un po’ per timidezza, soprattutto i nuovi arrivati.

Camminiamo ed inizia quasi subito a fare caldo anche se il sole, come è giusto che sia, se ne sta placidamente accucciato DALL’ALTRA PARTE DELLA VALLE. E chi lo vuole, il sole! Noi siamo specializzati nelle salite invernali al freddo e al gelo, ricordi?

Ci aspettano chilometri e salite e alpeggi e boschi e sentieri. E nessuna di queste cose, in ordine sparso, mancheranno.
Meta finale? Il Rifugio Casera Vecchia. Siamo andati parecchie volte, così tante che ormai è d’obbligo una “variazione sul tema” per raggiungerlo. Una volta dal fondovalle, una volta a mezza costa salendo un po’ più in su, domenica era la volta del “Giir di Mont”. Sappiamo di essere sulla retta via, che tanto retta non era, dai triangolini rivettati sulle rocce e sugli angoli delle case con su scritto, appunto, “Giir di Mont”. Olè.

Rifugio Ariaal, Alpe Chiarino, Alpe Barconcelli, Alpe Artino, rifugio Casera Vecchia. E a scendere ancora Alpe Vegessa, Alpe Casarsa, Alpe Forno di Sopra, Gebio, Giabbio. Punto e a capo. Per onor di cronaca li menzioniamo perché per loro, oggi, suderemo e bestemmieremo tra i denti. Come al solito.

Gli alpeggi d’inverno sono silenziosi e immobili, finestre chiuse, stalle vuote. Non c’è nessuno: né uomini, né animali. Né cani ad abbaiare, né gatti a miagolare, né falci a tagliare erba sul dolce pendio della montagna.

Niente di tutto questo.
Solo silenzio, il nostro sbuffare e le bestemmie tra i denti.
Forse era meglio il centro commerciale ed i regali di Natale.
Taci e cammina. Il fiato servirà per la salita, i pensieri per la discesa.”

Il bosco ci accoglie all’alba. Salite ripide, foglie umide sotto i piedi, rocce che scivolano. Testa bassa, un passo dopo l’altro. Si sale. Nonostante le foglie secche, la fanghiglia nascosta sotto, le rocce scivolose dall’umidità della notte. Ce la caviamo con poco. Le giacche scivolano nello zaino. Prime gocce di sudore. Usciamo dal bosco e avvistiamo il primo alpeggio. Non c’è nessuno, ovviamente. E’ dicembre e i camini accesi sono altrove.
Passiamo veloci tra gli angoli sgretolati delle case, i piedi frusciano leggeri l’erba bagnata, guadagniamo quota senza troppo soffrire.

Primo Rifugio, Ariaal. Un cane, Lupa, ci accoglie scodinzolando.
Un gatto, Senzanome ma ben pasciuto, se ne sta accoccolato sul davanzale di una finestra a godere dei raggi di sole che solo lui sente. Siamo in ombra, da questa parte della valle.

Profumo di caffè nell’aria e legna che arde nel camino, una bandiera sventola senza troppa convinzione nell’aria tersa del mattino. Chiazze di neve a guardare in su, lì dove siamo diretti. Ci infiliamo nuovamente nel bosco, dal marrone e verde calpestiamo il bianco.
Seguiamo due tracce, un uomo e un cane. E le seguiremo per un bel tratto, finchè non ci troviamo a camminare su un sentiero che diventa stretto come un cornicione, sotto l’ombra degli alberi che ci riparano dal sole che “MANNAGGIATTE’ SEI DALLA PARTE SBAGLIATA DELLA VALLE”!

Passi veloci e passi sicuri, ghiaccio e qualche culo a terra, ramponcini ai piedi per sentirci più sicuri. Vado avanti in avanscoperta, piccola vedetta lombarda giù dall’albero e sguardo fisso sulla prossima curva, “chissà cosa ci riserva questo sentiero”. Saliamo ancora e scendiamo, rocce che chiedono mani, pendii che richiedono testa, a volte un raggio di sole sbuca da una curva e sembra un miraggio, la pelle si scalda quel tanto che basta per arrivare alla prossima ombra.

Prossima fermata: Alpe Barconcelli. Ci lasciamo alle spalle la tensione di quel sentiero che voleva fregarci ma non è riuscito a fermarci. Tipi tosti, questi qua. Scendiamo, scivoliamo veloci sulla neve fresca ed immacolata, ritroviamo l’uomo ma perdiamo il cane. Sarà andato per boschi, quattro zampe a fiutare prede. Chissà.
Scendere.
Seguire tracce.
Non sentirsi soli.
Mettersi alle spalle il tratto più impegnativo..
E’ una bella sensazione.
Ce la godiamo.

Dall’Alpe Barconcelli vediamo l’Alpe Forno, laggiù dove passa la mulattiera che ripercorreremo al rientro. Sarà buio, già lo so. Un torrentello scorre mezzo ghiacciato tra rocce mezzo ghiacciate. Superiamo un ponticello, dopo l’ennesima discesa riprendiamo l’ennesima salita. Ci aspetta l’Alpe Artino, l’ultimo alpeggio della salita di oggi. Un bel pratone fuori dal bosco, ammiriamo le vette tutt’intorno, cime innevate e nell’aria iniziamo già ad immaginare il profumo della polenta, della legna che brucia, dell’abbraccio di chi ci aspetta, al Casera Vecchia.

Saliamo ancora, “dai che è l’ultima, questa!”, calpestiamo la mulattiera con tenacia e FAME.
Sventola la bandiera del rifugio.
In fondo alla valle la Cima Varrone cerca di coprire con scarso successo il Pizzo Tre Signori.
Una cascata di ghiaccio alle spalle del rifugio, neve tutt’intorno, ghirigori di fumo dal camino, si scioglie la tensione e si afflosciano le gambe, ci svuotiamo di stanchezza e ci riempiamo di calore.

Ce l’abbiamo fatta, anche stavolta. Che ti credevi, che mollavamo?

Il resto è già un ricordo: i brindisi, i piatti fumanti, il caffè e l’ammazzacaffè e il digestivo dell’ammazzacaffè.

La discesa, il torrente che scorre, le ombre che si allungano, le bocche che tacciono, i pensieri che si ordinano, i ricordi che iniziano a prendere il loro posto nel cassetto. Il buio, le luci delle frontali, i rumori del mondo montano attorno a noi, il ticchettio delle bacchette sul selciato, una fontana che sgocciola e passa veloce, una cappelletta alla Madonna che ci strizza l’occhio, le luci del paese in lontananza che si avvicinano veloci, il ponte di pietra che abbiamo attraversato solo qualche ora fa.

Togliamo gli scarponi, chiudiamo le bacchette.
Abbracci finali e pacche sulle spalle.
Sorrisi stanchi e sorrisi soddisfatti.

E un ultimo pensiero: forse aveva ragione, quel signore. Ma quanta bellezza ci saremmo persi se lo avessimo ascoltato?


Le foto più belle


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