Il Cammino dei Forti è stato il nostro viaggio di chiusura di fine anno: 120 chilometri di salite, discese e silenzi tra borghi quasi dimenticati delle Marche, sotto un sole che abbiamo cercato con tutta la forza del desiderio. E lo abbiamo trovato. Un’esperienza che ci ha regalato bellezza, stanchezza e la gioia di essere insieme.

Come sospesi dentro una bolla d’aria ci troviamo a ricordare la visita silenziosa ad un convento di monache di clausura.
La crescia farcita di Elcito.
Le pale eoliche che girano a stento.
La prima neve appenninica.
Il silenzio di un borgo abbandonato dai più.
La vista dal monte San Vicino, dal mare alle montagne passando dalle campagne.
La salita a tracciare neve fresca immacolata.
La birra alla fine della seconda tappa.
Il sole.
Il sole.
E ancora sole.

Lo volevamo, fortissimamente lo volevamo, e lo trovammo. Dirompente. Giallo. Caldo. Quel so che a fine dicembre proprio non ti aspetti, nemmeno se te lo auguri e ci speri per dieci notti a venire prima. Siamo andati a sud per il sole ed il caldo. E per stare bene. E per provare quel Cammino che ormai, nel nostro immaginario, aveva assunto un sapore quasi salvifico, come se in esso avremmo trovato la gioia eterna. E ci siamo andati vicini, in verità. Ma questa è la fine della storia. Prima vengono centoventichilometri che son lunghi a scriverli, figuriamoci a camminarli tutti.

Cinque giorni di cammino, tra San Severino e i borghi di Crispiero, Rastia, Elcito e Pitino. Ogni passo ci portava più vicino alla quiete di un paesaggio in cui il tempo sembra essersi fermato. 5 giorni, 4 notti, salite e discese tra boschi, sentieri, asfalto, borghi abbandonati e dimenticati da Dio, prati verdi come fosse primavera, vette innevate come fosse inverno, vecchi alimentari e rivendita di tabacchi che ci scappa anche un cero da cimitero ma con la lucetta led e niente stoppino né cera, ché l’avanguardia è arrivata anche qui.

Forti noi e forti i forti che resistono da secoli e svettano tra colli e campagne e che a questo cammino regalano il nome, foriero di stanchezza e bellezza così teneramente abbracciate assieme che scinderle è impossibile, anche a volerlo. Camminiamo a sudiamo e i pantaloni invernali son troppa roba, le termiche si inzuppano al sole ma le ringraziamo all’ombra, siamo pur sempre a fine dicembre, perdio. E questo è il racconto di un viaggio, un’avventura, un’amicizia che nasce e si rinforza già sui 500 km di autostrada che separano il nord dal centro, lo smog dall’aria pura, il cielo azzurro dal cielo blu. Le Alpi dal mare. I faggi dagli ulivi. La terra croccante dal gelo dalle zolle arate in distese inclinate a rotolare a valle.

Rotolano veloci le gomme delle auto come veloci scorrono i nostri passi mentre camminiamo a prendiamo le misure di una terra che, lo capiamo subito, nasconde molto in fatto di bellezza e silenzio. Poche le anime che incrociamo sul cammino, quasi nulle in verità. Quadrupedi bovini masticanti erba tenera, occhioni languidi ed incuriositi dai nostri bastoni colorati e per nulla nerboruti che tutto sembriamo tranne che bovari. E giù la testa e la vita va avanti, una ruminata alla volta. Come i nostri passi che scandiscono il tempo, i morsi della fame ed il gorgoglio dello stomaco vuoto, il panino addentato con il culo sulla neve che… la neve? Ma davvero c’è la neve quaggiù?

Girano stancamente le pale del Monte D’Aria e non girano le palle degli uomini e donne del monte, tutto fermo in un’attesa che, da queste parti, è normale vita. Un passo alla volta, piano piano si arriva ovunque. Non abbiamo fretta, noi. Questo cammino ce lo vogliamo gustare per bene. E perderci con la traccia e la testa giusta, pedissequamente seguiamo ed inseguiamo le frecce, “Cammino dei Forti” recitano su sfondo glitterato che la notte, alla luce delle frontali che mai usammo, risplendono di più.

Sia chiaro, non è questo una guida passo dopo passo di dove svoltare e quale sentiero seguire, ma un racconto passo dopo passo di quale bellezza gustare con gli occhi e con la mente, con i piedi stanchi e le gambe che non vogliono fermarsi nemmeno a sera.

Di poche parole la gente, da queste parti. E più ci addentriamo nella pancia delle Marche meno parole escono dalla bocca delle poche genti che incontriamo. Saluti. Cenni di testa. Occhiate. Sono abituati a veder passare gente, qua. Ma non così tanti in un colpo solo. E non a fine dicembre, quando dovremmo essere in casa ad addobbare alberi di Natale ed impacchettare regali. Noi no, l’abbiamo fuggito questo Natale, ed il regalo più bello che potevamo farci siamo noi.

Sembrano passati mille anni dall’ultimo timbro sulla credenziale a San Severino, la notte del 31 dicembre che è fine del Cammino ed inizio dell’anno nuovo, occhi stanchi a seguire le lancette finchè la mezzanotte non ci separi. Un ticchettio ultimo. Uno sguardo ultimo a quello che abbiamo fatto e che racconteremo a chi avrà voglia di ascoltare. Cammino dei Forti. 5 giorni. 120 km.

Sanno costruirle bene le salite, da queste parti. Ma siamo abituati a queste ripidità e ci vuole ben altro per stancarci. E andiamo avanti in un susseguirsi di saliscendi  dai colori misti, verde bianco marrone grigio nero blu se guardi in su. Le case son crepate ed alcune languono nell’attesa del crollo. Il terremoto non ha avuto pietà, qui. Camminiamo e ci sembra di sentirlo, quel rombo tremendo della terra che si scrolla di dosso peso e terra e montagne e mattoni. E le case e le chiese che non cadono oggi stanno lì, abbracciate da tiranti e da impalcature, da cavi d’acciaio che sembra di stare a Lilliput.

Son belli gli ulivi, da queste parti. Sembrano acconciati da un parrucchiere in gamba, chiome rotonde su fusti nerboruti puntano al cielo, noi passiamo sotto e ne succhiamo l’ombra su queste strade di campagna dove passano in pochi e men che meno a piedi. Ci starebbe bene il suono di un carretto e lo scampanellio dei buoi che se lo tirano dietro. Ma sono campanacci di mucche al pascolo, un cane abbaia da lontano, gatti fanno le fusa e pecore di bianco vello vestite guardano oltre. E noi passiamo.

Incrociamo vie e sentieri d’altri nomi e d’altri tempi, qui dove passarono peer secoli cappuccini, francescani, briganti, mercanti, signorotti e principi, carri e cavalli, sandali in cuoio e zoccoli quadrupedi. Ed oggi noi e le nostre suole in Vibram che tengono duro su asfalto e neve. C’era la neve, sai? E per arrivare a quel benedetto Monte San Vicino, poco meno di 1.500 metri cosa vuoi che sia, il culo che ci siamo fatti. Usciamo dall’agriturismo, quella mattina, buttiamo l’occhio all’insù e lo vediamo. Così lontano, così Vicino. Appunto. Col cazzo. “Venitemi a prendere”, sembra dire sogghignando. I vecchi del paese ci avevano sconsigliato di andare. Ma noi, testoni e capoccioni, lo sognavamo già dalla notte prima. “Dicono che c’è un panorama che mai più, da lassù. Vuoi non salire?”. Noi che veniamo dalle Alpi. Servono ghette e bastoni a sondare il terreno e gambe forti a spingere dentro i passi nella neve, si scende a mezzo metro e si risale al passo successivo, il pendio pende forte ed il bosco ammicca, seguiamo impronte di lepri e cinghiali e caprioli e cacciatori e poi non seguiamo più niente. Le nuvolette di fiato che condensano nell’aria. E il San Vicino che è un santo burlone ammicca, da lassù. Vicino, si, ma col cazzo.

CI alterniamo a tracciare, sudiamo forte a turno e gli altri dietro, tanto facciamo che la prendiamo, questa benedetta croce. Ferrea. Enorme. Ci abbraccia e noi di rimando abbracciamo l’intorno, le montagne, il mare, le colline, i campi arati. Abbracciamo estate, autunno, inverno e primavera in un colpo solo. #Faccedavetta. LA foto di gruppo, ché di croci da ste parti ce ne son poche, son più Madonne in tabernacoli ai crocicchi delle vie. Scendiamo dal San Vicino. Risaliamo sul Faldobono. “Lasciate perdere, c’è neve anche lassù”, ci avevano avvisato i vecchi del paese. E cosa vuoi che sia, noi che nelle scarpe, ormai, abbiamo pesi rossi da metà mattina? E queste creste, poi, vuoi non camminarle?

La campagna ha un altro sapore. Come il Campari col bianco alle 10 del mattino. Come la crescia a fine giornata in un Cantuccio che non ti aspetti aperto. Come gli gnocchi ed il pane fatti in casa al Casal Villanova. Come il cinghiale appena cacciato e frollato quanto basta per farne una delizia. E giù di bacche di ginepro. Come lo spritz a fine tappa. Come le risalite dopo le discese. Come i panini mangiati al sole in un borgo che rinasce, all’ombra di un castello e di una chiesa imprigionata dopo il terremoto. Non ci sono nomi in questo racconto, perché questo racconto va vissuto non nelle parole ma nei passi di questo Cammino che – davvero – ha un altro sapore. Quello degli alberi nei boschi fitti, quello delle strade bianche che con la neve lo sono ancora di più, quello delle pietre sapientemente disposte a farne forti e rocche, quello dell’albero in cima al campo sferzato dal vento che, alla fine, conviene piegarsi, sai. E vedremo alla lunga chi la vince, questa battaglia d’aria in movimento. “Qualcuno ha una nuvoletta da mettere davanti al sole, per caso?

Lo sai che rumore fa il timbro che si stampa sulla credenziale? Lo stesso di un cinque dato a mano piena, di un abbraccio con pacca sulla spalla, di un bacio schioccato su una guancia umida non si sa se di pianto di gioia o di sudore. Chissà.

Lo sai che profumo ha l’inchiostro del timbro sulla credenziale? Lo stesso delle bacche rosse che crescono su rami spogli ma non di spine, della onnipresente cicoria saltata in padella con l’aglio, del verdicchio di Matelica che è qui vicino, della notte che è notte vera, qui. Con le sue stelle e la sua Luna.

Lo sai che al tatto è ruvido, l’inchiostro del timbro sulla credenziale?

Come ogni cammino, anche questo ha lasciato un segno. Ci ha insegnato che la bellezza si trova non solo nella meta, ma in ogni passo che scegliamo di compiere, anche quando il San Vicino sembra lontano, ma col cazzo.

Tutto questo è stato possibile grazie a chi questo Cammino lo ha immaginato, disegnato, tracciato, promosso. A David e Guido, all’Associazione Pranzo al Sacco, all’accoglienza iniziale e finale di Mauro e Luca di Artisan. A tutti quelli che ci hanno dato ospitalità e ristoro. A chi, soprattutto, per 7 giorni si è fatto Compagnia: Laura, Giorgio, Silvia, Alba, Alessandra, Vincenzo, Carlo, Martina, Marty, Simona. A chi, per 7 giorni, si è perso con noi per ritrovarsi a brindare, a Capodanno, con gli occhi e le gambe stanchi ma con il cuore pieno. A voi tutti va il nostro più forte GRAZIE.


Le foto più belle


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