Il 24 e 25 maggio 2025 abbiamo festeggiato il 4° compleanno della Compagnia dell’Anello. Ecco cosa ci resterà di quei due giorni in quota, al Rifugio SEV, ai Corni di Canzo.
Settimane di preparazione. Anzi, mesi. Per vedere scoppiettare una candela di luminescenti scintille nella calda ospitalità di un rifugio che, come sempre, per qualche ora diventa casa. Le luci si spengono, le classiche note si diffondono nell’aria, si sospende il respiro nel buio rischiarato dalle scintille. Ed eccoci qua, nella nostra felicità di condividere con un pugno di amici l’ennesimo momento da portare a casa come un premio. Il quarto, per la precisione.
Ma andiamo con ordine.
Si incupisce il cielo mentre allacciamo gli scarponi, la pancia piena dopo il pranzo e quell’orario infido per iniziare a camminare. Alle due del pomeriggio ci si gode il sole in vetta, di solito. O si fa la pennica, alla peggio. Ma noi no. Siamo in un parcheggio, in quel di Valmadrera, impegnati nei saluti e nelle presentazioni, nei preparativi e lo sguardo puntato lassù, verso quei cornuti Corni che sfidano digestione e gambe a raggiungerli. Destinazione Rifugio SEV, lì dove la festa avrà inizio, lì dove un altro anno verrà archiviato ed un altro ancora riprenderà la sua corsa. In salita, ovviamente, e poi in discesa, come siamo soliti fare.
Ma non vuol essere questa una mera rappresentazione né sterile racconto delle ore trascorse insieme, quel vicino oggi e via via più lontano 24 maggio 2025, bensì un accrocchio mal studiato e non pensato di pensieri, passi, sorrisi e sbuffi, fatiche e sollievo nel raggiungere la meta. Niente di diverso dal solito, in verità, se non la soddisfazione di poter dire “anche oggi, siamo qui.”
Assaltiamo il SEV da 3 direzioni: dal bosco, dal Moregallo, da Valbrona. Ce n’è per tutti i gusti, oggi. Per tute le stanchezze, per tutte le velleità. Minimo comun denominatore: gli scarponi sporchi di terra. Ognuno di noi ne ha un paio ai piedi, ognuno di noi cercherà di sporcarli meno possibile senza riuscirci. Per fortuna. Siamo mica qui per passeggiare su un tappeto rosso.
Iniziamo insieme a camminare: Valmadrera, le stradine del paese alto, il ciottolato verso la chiesetta di San Tomaso. Gli alberi, il caldo, il respiro corto, le parole lunghe. Il ticchettio dei bastoncini sui sassi, lo strusciare degli zaini sulla schiena, le prime macchie sulle maglie. Gocce di sudore scivolano sulla pelle, una sensazione nota, a queste altezze ed in questa stagione. Maggio, preludio d’estate. I nuvoloni che coprono i Corni non ci spaventano, oggi. Dobbiamo salire lassù, e lassù saliremo.
Dal bosco. Dal Canalone Belasa. Dal Moregallo. Da Valbrona. Sali da dove vuoi, ma sali. C’è gente che aspetta, ci sono amici con cui festeggiare, ci sono quattro candeline su cui soffiare. E sono ancora le 15, più o meno, quando al bivio ci separiamo. Ma ci ritroveremo, promesso. Ché non basta un fiato, per quelle quattro candele.
Chi si sporca gli scarponi nel fango del bosco, innaffiato dalle piogge della notte prima, chi mette alla prova la tenuta delle unghie sulle rocce del canale asciugate dal sole del mattino. Tutti, più o meno, sbuffiamo e sudiamo e sentiamo nel palato il sapore della birra che aspetta, lassù. Chi non è mai salito al Corni alzi la mano. La strada la conosciamo tutti, almeno una volta nella vita ci siamo andati, noi, escursionisti esperti in cerca di altezze e brindisi festivi.
Ma arrivare lì, trovare palloncini colorati, scritte di “buon compleanno”, decine di foto di gruppo nostre appese alle pareti come un monito, più che un ricordo, che la vita, quella bella, va sudata. Sono centinaia i sorrisi che adornano la stanza dove festeggeremo, i muri di perlinato si vestono a festa di croci lontane e vicine, di panorami che non hanno mai visto, di sguardi che non incroceranno mai o mai più. Quante ne abbiamo passate, insieme?
Cala la sera lassù a 1.276 metri che non sono tanti ma non sono pochi, soprattutto se porti in grembo 7 mesi di vita e te lo sei guadagnato eccome, questo tramonto. (Grazie, Sara. Che regalo bello ti sei fatta. Che regalo bello ci hai fatto, con i tuoi sorrisi.) Cala la sera e lo fa piano piano, come un sipario che si srotola senza fretta sul lago, sulle cime intorno, sui cocuzzoli che abbiamo camminato chissà quando, vai a ricordare. E vai a ricordare con chi.
Decine sono le voci che frullano nell’aria, storie, aneddoti, episodi da raccontare, l’eco di montagne lontane che risuona qui dentro, nella calda accoglienza di questo rifugio che, per una notte, sarà come casa. Fuori c’è il silenzio della notte a 1.276 metri, le stelle un po’ più vicine a noi, il brillio delle luci lontane che sembrano stelle guardate a testa in giù. Sul lago riflesse raddoppiano e noi, qui nel mezzo, sospesi in una notte delicata.
Io te lo vorrei raccontare meglio, quel momento della torta. Ma ricordo poco. Non ricordo di averla tagliata, ma ricordo di aver farfugliato qualche parola in un discorso che non ricordavo, arrangiato sul momento, improvvisato, sbucato fuori da chissà dove. Però, il sapore del “grazie” a chi c’era, quella sera, lo sento ancora sul palato e sulla punta della lingua. C’era chi ci doveva essere. Chi ci aspettavamo che ci fosse. E chi ci ha regalato una presenza inaspettata.
Il vino scorre come l’amaro, il cibo è troppo e quello stinco di che animale è? Qualcuno inforca la frontale per tornare a casa, il buio pesto del bosco inghiotte i passi e a noi non restano che le lucine alle finestre del rifugio a rischiarare la notte all’ombra dei Corni. Ci rivediamo domattina, noi.
Orientale, centrale, occidentale. Rischiarati dal sole nascente, qualcuno improvvisa una sveglia molto mattutina per sentire che sapore ha il sole sulla pelle a 1.276 metri. Gli altri dormono, russano, respirano piano. Ad ognuno il suo respiro, ad ognuno il suo sonno, ad ognuno i propri sogni. La giornata è lunga ed i Corni ci aspettano. Noi aspettiamo gli altri amici che ci raggiungono già sudati alle 9 del mattino ed insieme partiamo, palloncini legati agli zaini, arancione, nero, bianco, verde sono i colori della Compagnia. Il sole, la notte, la neve, i prati. Adesso capisco.
Iniziamo con l’occidentale. Il più alto dei tre. Siamo freschi di sveglia e sazi di colazione. Abbiamo le forse giuste e le mani che prudono per la voglia di assaggiare le roccette del canalino. Zaini giù, che tanto da qui ripassiamo dopo. Leggeri fluttuiamo in salita verso la croce ed il panorama, per qualcuno è normale amministrazione mentre qualcun altro spinge oltre il limite della paura, siamo mica tutti Messner, d’altronde. Chi nasce in pianura ha bisogno di tempo per abituarsi alle altezze. Prima foto di gruppo di questo quinto anno che nasce, “ma io da lì non scendo mica, sai” e allora va bene, scendiamo dall’altra parte, dal canale che fa meno paura. L’importante è scendere, che di Corni ne mancano due, ancora…
Continuiamo con il centrale. Sembra il più alto dei tre ma per cinque metri si fa fregare dal primo. Ma che emozioni che ci regala, questo mezzano! Ancora mani sulla roccia e ancora foto, ancora panorami e vedute dall’alto, ancora la soddisfazione di avercela fatta, ancora. “Ma io da lì non scendo mica, sai”. La solita vocina. E allora va bene, scendiamo dall’altra parte, con le catene che fanno meno paura della discesa in disarrampicata libera. E’ divertente, da qui. A trovare dove mettere i piedi e le mani, rotoliamo con grazia e maestria verso la Forcella dei Corni, risuona il tintinnio delle catene sulle rocce, le imprecazioni a voler significare “chi me l’ha fatto fare, a me?”, le trepidanti attese dell’aver tutti e due i piedi appoggiati sul terreno, in orizzontale, che non siamo mica lucertole noi. Ed il sole lo prenderemo dopo pranzo, al rifugio, sdraiati sull’erba.
Portiamo a casa anche l’occidentale, il più semplice, quello dove ci si più rilassare e guardare alle spalle la parete quasi verticale dalla quale siamo scesi qualche minuto fa. Il sole picchia forte, oggi, mentre strizziamo gli occhi in questa foto di gruppo, la terza ma non per importanza. Salta fuori una torta da uno zaino (grazie Francesca), salta fuori la fame stuzzicata dalla torta, salta fuori che è ora di pranzo e ci attende il ritorno al rifugio ed il ritorno a casa. Quante cose da fare, ancora!
Il sole del pomeriggio è caldo e dolce. La birra è fresca, la gente è tanta. Abbiamo goduto la sera prima del silenzio del rifugio tutto per noi. Oggi si torna alla condivisione. Con decine di sconosciuti che abbiamo incrociato sui sentieri, altri come noi che cercano pace e respiro corto, altri come noi che cercano altezze di cielo e profondità di cuore.
Il ritorno è ad anello, come vuole la Compagnia. C’è silenzio in questo bosco, siamo soli, ognuno chiuso nei propri pensieri e nei propri ricordi di queste ore trascorse insieme. Fruscio di passi sul fango e sulle foglie, qualche parola qua e là, la stanchezza si fa sentire ed il peso dello zaino e la polvere sotto le unghie di quelle rocce che abbiamo accarezzato stamattina.
Il fiato è corto anche in discesa, non per la fatica.
Ma per quelle 4 candeline che abbiamo spento la sera prima.
Ringraziamenti doverosi
A chi, in questi quattro anni, ha creduto — e continua a credere — nella Compagnia.
Alle montagne, che si lasciano calpestare dai nostri passi senza mai lamentarsi.
A Eleonora, Carlo, Emil, Alex, Giorgio, Lucy, Zak: oggi ci crediamo più che mai.
Al Rifugio SEV e ai suoi volontari, che per un giorno e una notte ci hanno fatto sentire a casa.
Alle nostre gambe, che nonostante la stanchezza continuano a camminare.
Alle nostre braccia, che si aggrappano a catene, rocce, bastoncini, e non mollano mai.
A quella voglia di andare, scoprire, camminare, ritornare.
A quella voglia di conoscere, riconoscere, lasciarsi andare, ascoltare, parlare, raccontarsi.
Alla Compagnia.
Che, in fondo, non è altro che il mix perfetto di tutte queste cose.
Le foto più belle
Guarda la Photogallery completa su Facebook

Trovate questo ed altri racconti nella raccolta "La Compagnia dell'Anello", online su Amazon
Clicca qui per acquistarlo