Una giornata in bianco e nero, i colori li abbiamo portati noi.
Il rosso che fa a pugni con il viola, il nero che cerca la compagnia del bianco, il verde che stuzzica la natura a risvegliarsi. Il giallo che cerca il sole con la testa tra le nuvole, il marrone la fa da padrone insieme al grigio e non si decidono, ore lunghe, su chi è il padrone della giornata.

In mezzo a questa baraonda di sfumature un fiore alza la testa dalla terra, si erge fiero sul lungo gambo spiccando il volo verso il cielo, trova nuvole basse e foschia sul lago ma ormai è fuori e dentro non si torna più. Una fatica, uscire! E non è solo, in buona compagnia di altri temerari che cercano di scrollarsi di dosso l’inverno e la neve delle quote basse, quella che attacca ma si stacca in fretta, quella che in un giorno di sole è già un ricordo.

Neve che diventa acqua fluendo in rigagnoli e rivoli verso il basso, lasciando l’alto e lasciando il cielo in una corsa disperata verso il lago che oggi, da qui, è un’idea più che una visione. Pazienza.

Il muschio nel bosco è un tappeto verticale su pietre e tronchi d’albero, fanghiglia poco convinta ad intralciare i passi e far scivolare i pensieri, l’equilibrio è precario sul pendio erboso che discendiamo lasciandoci alle spalle le croci, due, dell’anticima e della cima. “Repetita iuvant”, dicevano. Se non l’avessi capito siamo arrivati. Lassù, dove oggi dovevamo arrivare, in questa giornata in bianco e nero in cui i colori li abbiamo pasticciati noi.

Poco sudore sulla fronte, poca fatica nelle gambe, poca soddisfazione nel panorama.
Eppure.

Eppure nitriamo risate come di cavalli imbizzarriti, non sarà certo una coltre di nubi a rovinare l’atmosfera che faticosamente abbiamo costruito, mattone dopo mattone, passo dopo passo, da quando siamo partiti, stamattina, da laggiù. E’ la magia che si compie ancora, è la gioia di stare insieme, è la condivisione dell’obiettivo e della stanchezza, delle gambe pesanti e delle creste insidiose, del non sapere cosa dire allo sconosciuto che ci cammina a fianco e che, poco dopo, è un amico che non vorremmo lasciare più.

Vai a capire dov’è il trucco. O forse è meglio non capirlo per avere, ancora una volta, lo stupore dei bambini quando il coniglio esce dal cappello. Voilà. Non c’è trucco e non c’è inganno, fossimo stati al mare sarebbe stato uguale, la montagna è bella, si, ma vai a spiegarlo a chi è nato e cresciuto con le onde nelle orecchi e l’infinito mare negli occhi.

Bella la montagna, anche quando si nasconde alla vista e si lascia solo immaginare, bella la montagna quando la bellezza la devi cercare con forza e per forza per dare un senso a tutto questo andare. Un anello, si, che ti porta indietro esattamente da dove sei partito. In mezzo passipassipassipassi che diventano chilometri ed il senso si perde e lo lasciamo andare e ci lasciamo andare rotolando su sfidando la forza di gravità e rotolando giù assecondandola, finalmente, nella normalità di una giornata che normale, per fortuna, non lo è.

Bello quel bosco dentro cui ci siamo persi per un po’, nel silenzio del muschio che cresce sul sasso e di un pino bonsai che spacca la roccia per diventare albero, nel cinguettio di uccelli nascosti tra le fronde che chissà cosa si dicono, nel fruscio di foglie che si accarezzano al vento, debole, per fortuna, quanto basta per portare profumi che noi, gente di città, non sentiamo mai.

Ci lasciamo stuzzicare, ci lasciamo immaginare, ci prendiamo per mano in un balletto antico di note che sono sguardi, non c’è strumento più bello della natura che parla, e a volte urla, a volte sussurra, troppo spesso tace in un silenzio che abbiamo perso la gioia di ascoltare.

I colori, quel giorno eravamo noi. Il dipinto, quel giorno, visto dall’alto, era bellissimo. Il pennello, in mano a lui, scorreva da Dio. Sono setole e non fili d’erba a scorrere sul foglio, sono gocce di colore e non di pioggia a scivolare sulle braccia. Siamo bagnati, si. Ma di colore. E l’arcobaleno, quel giorno, lo abbiamo piegato noi.


Le foto più belle della giornata


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