C’era vento quel giorno, mentre salivamo al rifugio Tagliaferri. Un vento che avrebbe potuto portar via tutto ma non l’aquila di ferro, saldamente abbarbicata al suo piedistallo a guardare noi e la valle da lassù, legata forte in un impeto di volo che, chissà quando, arriverà .
Non la vedevamo ancora mentre salivamo nel vento forte che scompiglia capelli e pensieri. Ma sapevamo che c’era lì ad aspettarci. Come il rifugio, con il suo contenuto fatto di amore e passione per qualcosa che solo chi non l’ha mai provato non può capire.
Il silenzio della notte che scende, il silenzio del sole che sale, giorni che sembrano tutti uguali ma che portano in sé, ognuno di loro, un pizzico di meraviglia. Per l’esserci. Ancora. E salivamo, noi, nel vento forte che spazza la valle.
Sorrisi distesi finchè non inizia la salita, pensieri cupi finchè non arriva la fatica, preoccupazioni che, per forza di cose, si arrendono a ciò che bisogna fare. Camminare. Salire. Faticare. Ché la storia di Maometto e della sua montagna non è vera. Se non ci andiamo noi, le vette non scendono a valle. Punto.
Un fritto misto di anime, quel giorno, nel vento forte che sussurra urlando parole che non capiamo. Gambe forti e voglia di arrivare per primi, leggerezza e lentezza nell’assaporare ogni passo, ogni angolo di questo angolo nascosto di mondo che è per pochi, per chi sa meravigliarsi e stancarsi. Stancare occhi e gambe, un passo dopo l’altro in una salita che sapevamo sarebbe stata lunga ma per quanto spezzettiamo i chilometri in metri, sempre chilometri rimangono.
E il rifugio, la nostra meta, nascosto fino alle ultime curve di questi tornanti che salgono e si aggrovigliano l’uno attorno all’altro, un serpente in letargo prematuro in un settembre che volge al termine e cede il passo al fresco dell’autunno. E il vento forte in sottofondo a fischiarci nelle orecchie melodie che non riconosciamo.
La salita è gentile ma lunga. E ringraziamo Iddio che sia così. Avevamo bisogno di distenderci, quel giorno, noi sulla valle che si distende sul mondo. Rigagnoli e fiumi e gocce d’acqua che scorrono sulle rocce, pozze e pozzanghere e rivoli sotto i nostri piedi, il sudore che non arriva perché forse non fatichiamo o perché quel vento, quel giorno, asciuga tutto.
Ci metterei una musica sotto questo viaggio, se non fosse per il vento che la porterebbe via. E allora tace l’orchestra e che sia il vento a cantare tra i capelli che fluttuano per aria. Che sia il vento a cantare tra i fori delle bacchette che ci sorreggono. Che sia il vento a portarsi via le voci di chi ci cammina davanti o indietro. Capiamo a metà , capiamo quello che vogliamo capire, forse non capiamo niente. Ma un senso lo troviamo ugualmente, in questa giornata dal sapore autunnale e dal sole estivo.
Vento forte che soffia via nuvole e stanchezza, cielo limpido, grazie al vento, panorami di cui la prima volta del Tagliaferri non abbiamo goduto. Eravamo in mezzo alle nuvole, quel giorno. Siamo in mezzo al sole, oggi. Sospinti come uccelli dal vento, ali spiegate e proviamo a volare. In discesa, però. Ché in salita c’è solo da camminare. Punto.
Ma quanto è bello stò posto? E chi se lo ricordava così? E perché abbiamo aspettato un anno a ritornarci? E perché stiamo così bene, oggi?
Dammi un pizzicotto. Dimmi che non è un sogno. Ricordami le cose belle. Fammi tornare indietro. Sussurrami cose da raccontare a chi non c’era. Fammi riempire un foglio bianco di scarabocchi che il vento metterà a posto, in ordine, a formare parole che pochi, forse, capiranno.
Quanto la vuoi lunga, questa storia?
Quanti minuti della tua vita vuoi regalare a questo giorno che inizia presto e finisce l’indomani?
Nelle orecchie una voce amica che gracchia da una radiolina.
Negli occhi la valle e le vette e il culo e le gambe e i piedi di chi ti precede.
Nelle gambe la forza e la spinta che ci vuole per andare. Salire. Un passo dopo l’altro.
Una pausa sul ciglio del sentiero, accanto a noi il fianco della montagna si lascia andare giù.
Ero piccolo, correvo con un paio di scarpette di cuoio su muretti a secco in pietra a due metri da terra.
Un equilibrio precario ma saldo. Braccia larghe che sembrava di volare. Pietre aguzze ma scolpite con maestria, levigate dal tempo e dal vento.
Chi l’avrebbe mai detto che sarei tornato a camminare veloce su questi strapiombi che poi, a guardarli bene, altro non sono che vie di fuga dalla realtà . Niente paura. La montagna è amica. Il rifugio aspetta. E lì dentro c’è gente in grado di volere bene, che sa ancora sorridere, che riconosce un amico. E’ lì che stiamo andando noi, oggi.
Sapevamo che sarebbe stata dura.
VOLEVAMO che fosse dura.
E quella birra che scoppietta all’apertura, quella schiuma che cola giù dal collo della bottiglia, quel fresco sapore di vittoria che pare di stare su un podio di chissà quale gara. Come fai a spiegarla questa cosa a chi non è mai stato quassù?
Quell’anellino al labbro.
Quelle gambe lunghe.
Quel culo sodo.
Quella voce roca.
Quel piede ammaccato.
Quella frangetta troppo lunga.
Quel passo lento ma costante.
Quelle smagliature ai polpacci.
Quel sorriso devastante.
Quello smalto scuro sulle unghie.
Quella voce gentile.
Quei capelli corti e biondi.
Quell’accento strano.
Come fai a raccontare tutte queste persone se non guardi bene chi ti cammina a fianco?
Avremmo potuto fare un sacco di cose, quel giorno, noi e il vento.
Anche salire in groppa a quell’aquila di ferro e volare via con lei.
Ma siamo tornati giù.
Stanchi. Con ventiquattro chilometri nelle gambe e gli occhi gonfi di meraviglia.
Con qualche lacrima ingoiata e qualche risata scappata via nel vento forte che soffia in valle, oggi.
Ma lo sai che avevi ragione?
Che ventiquattro chilometri, se camminati così, altro non sono che una manciata di passi?
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