Sembrava non avessimo fatto niente quel giorno mentre ce ne stavamo al sole come lucertole, comodamente seduti al tavolo del rifugio a mangiare tutto tranne i panini che ci eravamo portati dietro per tutta la mattina.

In fondo guardavamo alla pianura, alle città e a quel mare di nuvole che nuvole non erano ma nebbiolina fitta di sporco e monotonia, il sole che cerca di filtrare a fatica per illuminare strade, palazzi, rotonde, circonvallazioni e tangenziali.

Il traffico è un ricordo oggi, mentre a caccia di raggi di sole, malamente troppo vestiti arranchiamo su questo pendio che non molla un attimo fino al traverso del canalino, lì dove sapevamo che ci aspettavano cavi e fittoni, staffe e rocce lisciate da troppe mani e troppi piedi.

Lo sguardo perso all’infinito a cercare cime lontane e profili conosciuti, il Cervino che sbuca dalle nuvole spettrale come l’albero maestro di una nave in mezzo al mare. Eppure c’è anche lui, oggi, a farci compagnia tra gli altri. A ricordarci che, a saper guardare lontano, si può vedere tutto ciò che si vuole.

Le termiche troppo termiche, chi può va di canotta e di top sportivo, agli altri verrebbe voglia di tagliare via le maniche ed i pantaloni per tornare a quel sapore estivo del sole che picchia forte a 2.000 metri. E chi se lo aspettava, sinceramente. Previsioni sballate, come al solito.

Saliamo. Come sempre, saliamo. Annusiamo l’odore della croce di vetta, sentiamo quasi il profumo del ferro rosicchiato da vento e neve e sole e nuvole, ne avvistiamo la punta quando manca ancora un po’ ma ormai è fatta, pensiamo. Anche se c’è da divertirsi ancora un po’.

Non perdona l’Arera. I quasi mille metri di salita li dobbiamo smazzare attorno al tavolo in pochi chilometri. E li smazziamo. Tra roccette affilate e ghiaia che scivola via sotto i nostri piedi, tra punte di bastoncini che non mordono come dovrebbero, tra polvere di roccia e sassi bianchi che sembra di stare al mare.

Riflette il sole, l’Arera. Di bianco calcare ed acconciato di creste, pareti e canali ammicca al nostro faticare. Fermo. Solido. Fiero. E sereno. E’ vero, il respiro esce potente dai nostri polmoni e dalle nostre bocche mentre a fatica saliamo. Ma sereni andiamo avanti. Sarà il bianco del monte. Sarà il calore del sole. Sarà che oggi, quassù, sembra una giornata perfetta in cui essere.

La prima birra passa veloce che nemmeno ce ne accorgiamo.
Il vino scende e rilassa.
Il cibo sazia e soddisfa.

Dove volevi andare, quel giorno, se non lì?
Con chi volevi andarci, quel giorno, se non con quelli lì?

C’è lei, occhiali da sole ben calzati sul naso anche quando è buio pesto. “Sono da vista”, si giustifica ogni volta. E intanto nasconde occhi ed emozioni.

C’è lei, fisico da bambina, top e leggins neri, trecce ai capelli e piglio da Lara Croft. Anche se in discesa si muove cauta che sembra quasi lenta. “Non ho nessuna fretta di tornare a casa”, dice.

C’è l’altra, capelli ricci che ti ci perdi dentro, sorriso forte e gambe altrettanto. Sale e scende come niente fosse. Ride e parla come fosse a passeggiare in centro davanti alle vetrine. “Sono qui solo perché il dislivello è come piace a me. E perché l’Arera non l’ho mai fatto”, sentenzia. Però lo sappiamo che in fondo le piace anche stare con noi.

C'è lui, il brontolone. Una pentola di fagioli, borbotta e bofonchia, oggi ce l’ha con il sole che spinge troppo e siamo a novembre. “A saperlo venivo in pantaloncini”, il mood della giornata.
“Non hai una manica corta, nello zaino?”
“Macché, ho tre termiche di ricambio. E chi se lo aspettava questo caldo?”
E ricomincia il borbottio.
Sorridiamo.

E vogliamo parlare di quello lì che sulle spalle ha un monolocale invece dello zaino? Chissà quanta roba ha dentro!
L’ho portato per te, che almeno, piccolo come sei, se ti stanchi ti posso portare in spalla.”
Simpatico, lui. Ma apprezzo il gesto, davvero.

La Biancachioma. Sbuffa e suda. E parla all’ascolana. Si perde indietro. “Scattavo foto, che qui ai ricordi non pensa nessuno”, così dice lei. In realtà arranca. Come piace a noi. Senza mollare un centimetro. Lenta ed inesorabile e felice di vivere. La invidio. E sorridiamo in due.

E di quello che ride così forte da provocar crolli di pietrisco, ne vogliamo parlare? Dov’è finito, a proposito?
Ah, eccolo che arriva in cima anche lui. Pantaloncino corto e t-shirt gialla. Ben visibile, mi raccomando. Scarponi da quattro soldi ai piedi.
Ma non hai un paio di scarpe serie da mettere quando vai in montagna?
Ho messo queste perché venivo sull’Arera
Ah, ecco. Touché.  Ecco che mi spiego anche il borsello in similpelle invece dello zaino. Lui si, che passeggia in centro davanti alle vetrine anche a duemila metri. Ma è proprio questo il bello: siamo tutti personaggi diversi, eppure oggi siamo saliti insieme, ridendo delle nostre stranezze e spingendo decisi contro vento e sole.

Ci sono giornate come questa che valgono la pena di essere vissute. Nonostante la fatica, nonostante il sudore, nonostante la sveglia prima che canti il gallo. Nonostante le ore di guida. Nonostante il freddo che mordicchia la pelle prima di muovere il primo passo. Nonostante tutto.

Respiriamo leggeri, adesso che la vetta è al sicuro nel ricordo di ognuno di noi. Ci perdiamo nel guardarci dentro e attorno, cerchiamo sguardi complici di questa meraviglia, le parole servono a poco, adesso. Sono strette di mano e abbracci di gioia. Sono foto da mostrare a qualcuno, un giorno, laggiù in pianura. Sono emozioni da raccontare a chi avrà voglia di ascoltare questa storia.

Duemilacinquecento dodici metri, l’Arera. Mica chissà che. Ma è così bello, di bianco calcare vestito.
E adesso che il sole scende di fronte a noi, adesso che le ombre si stiracchiano all’indietro e diventiamo sottili strisce disegnate sul sentiero, qui dove il bianco del calcare e il blu del cielo si sfiorano, la luce rimane. Nei sorrisi che ci scambiamo, nel peso che abbandoniamo ad ogni passo, nell’aria che ci riempie il petto. L’Arera non è stata solo una cima, ma il frammento di una giornata perfetta che porteremo sempre con noi. E se non sempre, almeno per un po’.


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