Perché ogni storia vale la pena di essere raccontata.
Così. Senza punto interrogativo. Affermazione.
Anche la più piccola, la più lontana, anche quella che, nell’economia globale sembra insignificante.
Un po’ come il primo passo di un cammino, che sembra niente ma è il primo, quello che ti mette in movimento. Che ti porta alla dimensione del moto che è alla base del sentirsi vivi.
Non sono riflettori puntati sul palco della storia, quel giorno del lontano novembre 1944, ma il mirino di una mitraglia verso il fianco di un monte, lì dove gambe corrono veloci, nell’affanno di una corsa scombussolata e disordinata, cercano riparo e salvezza, fuga e vita. Un colpo, due, tre. Le mitraglie son così, una volta che iniziano a vomitare non si fermano facilmente, troppo rancore da sputare fuori, troppo odio da tenere dentro.
Corrono veloci quelle gambe, più di un paio sparpagliate su un prato che diventerà palcoscenico agli occhi della storia, dei postumi che ne leggeranno la fuga come una corsa verso la gloria, verso il ricordo perenne, verso una penna ed un foglio bianco che saranno muti testimoni per i secoli a venire.
Gratta la penna sul foglio ad avere udito fine per sentirlo. Non è la sfera che ne ammutolirà il suono e non è il tempo che darà oblio al sacrificio, l’ultimo, il più grande, che degli uomini possano fare per sé e per un ideale.
Schierarsi da una parte o dall’altra. Qualsiasi sia la scelta non è mai semplice. Pro e contro, una faccia ed il suo rovescio della stessa medaglia. Giano bifronte, notte e giorno, tramonto e alba. Silenzio e rumore. In sottofondo gli sputi metallici di quella mitraglia sul campanile di una chiesa che, fino allora, aveva accolto e raccolto solo rintocchi di campana a segnare minuti, ore, giorni. Il tempo che passa e che sembra fermarsi, quel giorno, mentre fiori rossi sbocciano sul fianco della montagna, esplodono fioriture invernali desuete e fuori stagione. Le bizze del tempo, le bizzarrie del meteo, la follia degli uomini.
Intorno è caos e caso, non ci sono trombe né flicorni né grancasse a battere il tempo a suonare l’assalto ma solo passi pesanti sul selciato e sulla terra battuta, urla di donne e vecchi e bambini, ragli d’asino e porte e finestre che sbattono come palpebre che si chiudono veloci per non vedere. Ma per quanto ti copri gli occhi il mondo va avanti, non è la cecità a cambiare il destino né il corso della storia. Quella, semplicemente, avviene. Volenti o nolenti il tempo scorre uguale per tutti, a noi solo la scelta di quanti passi, quanti battiti di ciglia, quanti palpiti di cuore mettere tra un secondo e l’altro.
Batte forte il cuore di quei ragazzi diventati troppo velocemente uomini mentre corrono veloci verso l’Alben da Cornalba, le case abbandonate in una fuga scomposta come una fuga dalla casa dell’amante all’arrivo improvviso del marito, un pericolo dietro il tornante, rumori di camionette e spernacchiare di motorette che nulla hanno a che sentire con il lento rotolare delle ruote dei carri che portano fieno, o latte, o burro e formaggio o legna da ardere.
Rintocca la campana di Cornalba dei proiettili esplosi ed espulsi dalla mitraglia, ding-dong-ding-dong uno dopo l’altro ma non sono ore che segnano ma fiori rossi che sbocciano sul fianco della montagna, sotto le pareti diafane della Corna Bianca.
2 giorni per 15 vite.
Una moltiplicazione senza senso come quei momenti ma necessaria perché la raccolta alla messa va chiamata, perché la storia va costruita, perché tutto questo, un senso, alla fine ce l’avrà.
“Ai posteri l’ardua sentenza”, scrisse qualcuno.
E i posteri siamo noi. Siamo ANCHE noi, che oggi nel bosco cerchiamo fiori ma troviamo croci.
La prima salendo verso l’Alben guarda il paese. Ed il paese da laggiù guarda la croce.
Un gioco di sguardi a scambiarsi occhiate e dirsi “mai più”.
La seconda sul fianco della montagna a guardare la prima che guarda il paese, un triangolo d’amore per chi, per avere quella croce, quel giorno diede la vita. Se la fece prendere, più che darla.
Erano ragazzini e lottavano per un ideale, per un’idea, per se stessi e per la famiglia, per il paese che li aveva cresciuti. Esattamente come quelli che, dall’altra parte del prato, non avevano in mano bastoni da montagna né fazzoletti verdi ma pistole e fucili e mitra e mortai e proietti da sparare.
Non è questione di colpa.
Non è questione di scelte.
Non è questione di vita.
Non è questione di morte.
Era solo e semplicemente tutto quanto assurdo.
Ma questo lo capiremo molti anni dopo senza peraltro farne troppo tesoro.
Ma questa è un’altra storia.
E noi?
Noi volevamo solo un buon motivo, uno qualunque per la verità, per tornare sull’Alben e, per una volta, fermarci a dormire lì, nel suo abbraccio di pietra. Avevamo intravisto qualche tempo fa la bellezza del suo tramonto, avevamo immaginato qualche tempo fa la dolcezza della sua alba.
Volevamo una scusa per non scappare via come le altre volte, coda in mezzo alle gambe e la vita normale che aspetta laggiù, in pianura. Quel motivo l’abbiamo trovato in una storia vecchia di ottant’anni, una storia che valeva la pena di essere raccontata ed essere ascoltata.
Cornalba, peraltro, non aveva mai sentito il peso del nostro primo passo nell’assalto all’Alben. Non ce ne voglia Zambla, ma da qui è un’altra storia. Quella con la maiuscola, esattamente.
Profuma di legno il rifugio, profuma di rugiada ogni filo d’erba della valle, profuma di roccia ogni pietra che scricchiola sotto i nostri passi. Si inonda di sole il fianco dell’Alben mentre risaliamo questa corrente di nomi e ricordi e dolore e rivincita e vittoria, alla fine, della Vita. Sventola una bandiera nella brezza leggera della sera, si tinge di viola il cielo al tramonto. Che sia lo smog della pianura o riflessi del tramonto poco importa. E’ bello. Ed è come lo immaginavamo tutte le volte che all’Alben siamo saliti e dall’Alben siamo discesi nel volgere di una rotazione solare.
E’ un telo appeso a muro a raccontare in immagini la storia ascoltata qualche ora prima.
E’ la storia che si fa immortalare da una macchina da presa o fotografica, è la storia che si mette in posa perché noi, ottant’anni dopo, su un telo appeso al muro, con immagini sparate da un proiettore, potessimo vederla ed innamorarcene. E piangere e riflettere, e sorridere e ringraziare chi, dopotutto, ci ha lasciato in eredità quello che siamo ed abbiamo oggi.
Sembra difficile da capire questo racconto se non c’eravate, ma provate ad immaginare.
Lasciatevi andare.
Occhi chiusi.
Respiro lento.
Sembra quasi di sentire l’affanno della mitraglia che contrasta, adesso, così forte, con il silenzio della sera qui al Rifugio Monte Alben, vecchia casera riportata in vita da ragazzi che in un ideale credono ancora. Travi portate a spalla, notti in tenda in attesa dei letti, vai di pialla e di martello, un colpo di mazzetta ed una strisciata di pennello.
E’ casa, stanotte.
E’ vita, stanotte.
Il sole arriva e con lui l’alba. Non la ricordo, dormivo, confesso. Troppo comodo tra le coperte ed i respiri dei compagni di avventura che per una notte ed un giorno sono (r)esistenti con me.
Ci si incammina ancora verso una croce e poi verso l’altra e di mezzo c’è una sella ed un bivacco scavato nella roccia, una bandiera che sventola nella brezza del mattino, rocce da assaggiare con la punta degli scarponi prima di fidarci ed affidarci al prossimo passo che ci porta in su, verso la croce dell’Alben che puntavamo il giorno prima, nel rosso tramonto della sera.
Nessun escluso arriviamo tutti, chi prima e chi dopo, ognuno a modo suo, ognuno a respiro suo. La croce è lì ed aspetta e noi pure anche l’ultimo arrivato. Non importa quanto abbiamo aspettato, non ricordo nemmeno chi fosse l’ultimo. C’eravamo tutti a quella croce, Abbiamo (r)esistito anche stavolta.
Sentiti e dovuti ringraziamenti a Bruno Bianchi, autore del libro “La mitraglia sul campanile” (clicca qui per acquistarlo) che ci ha presi per mano ed accompagnati nella storia.
Claudio Plevani, presidente A.N.P.I. Valle Brembana, a vegliarci dal fondo del serpentone nel bosco.
A Nicoletta Tiraboschi a farci compagnia nelle lacrime di commozione di questi racconti che vanno raccontati e non dimenticati.
Ai ragazzi del Rifugio monte Alben che ci hanno prestato tempo e spazio perché tutto questo accedesse.
A chi ha voluto essere con noi.
A chi non è più con noi per far sì che oggi noi esistiamo e (r)esistiamo.
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