Di solito ascolto musica, quando inizio a scrivere i racconti di apertura o di chiusura di un evento. Quello che capita, preferibilmente qualcosa che mi piace. Di solito il ticchettio dei tasti è coperto dalle note di qualche canzone, ascolto musica e i pensieri che mi scorrono nella testa e che poi diventano parole e frasi e strampalati resoconti di qualcosa che è stato e non è più nient’altro che una manciata di ricordi.
Ma stasera no, c’è silenzio attorno a me, la città dorme, il condominio dorme, qualche macchina passa in strada. Ascolto il suono dei tasti che mi fanno pensare al suono dei bastoni sulle rocce, tic tac tic tac tic tac, è molto simile, se provo a scrivere lentamente mi pare quasi di riuscire a sincronizzarmi con la lenta salita che insieme abbiamo percorso domenica scorsa. Quella per arrivare al Prato Dell’Orso, quella ancora più insidiosa dell’Orscellera.
E questa volta, io sto con gli ultimi. Non con chi ha fiato e gambe da vendere ma con chi, con sforzo enorme, è riuscito ad arrivare in cima nonostante tutto – anima cuore gambe – urlasse ai quattro venti che non era cosa di andare avanti. Così mi sono messo al passo degli ultimi, di chi per stanchezza o per godere del ritmo lento della montagna è andato piano, tre passi una pausa, tre passi un respiro profondo, i polmoni che cercano aria, le gambe che bruciano, la testa che scoppia, un Moment che fa effetto, un sorso d’acqua, siediti per favore, respira, ce la puoi fare, e se ce la puoi fare tu ce la posso fare io e alla fine ce la facciamo tutti.
Io sto con gli ultimi, questa volta, ne approfitto per rallentare anche io, per godermi ogni passo, ogni respiro, ogni sguardo che lancio attorno a me per non pensare a quella maledetta salita, e quanto manca, e quanto dislivello abbiamo fatto, maledetta salita che non finisce più.
Ma vuoi mettere la soddisfazione di arrivare lassù, dove inizia il Sentiero degli Stradini, quelle montagne che sembrano piccole Dolomiti e ti guardano dall’alto, a volerti fare sentire piccolo, e tu, passo dopo passo vai avanti, a destra il vuoto, a sinistra la roccia e i sassi e terra e verde di fine estate. Un percorso intimo, da farsi quasi da soli, non c’è spazio per due, la Compagnia che si allunga come un serpente al sole, ma sole non ce n’è, siamo in ombra, siamo all’ombra di quella montagna che ci ha voluti lì con sé, quella domenica.
Eravamo poco meno di una trentina a rifare lo stesso giro che, quel 23 maggio, facevamo in undici. Allora non sapevamo cosa stava per nascere, non sapevamo che gli undici sarebbero diventati, ad oggi, 650. Seicentocinquanta. Viene lungo anche a scriverlo. In tre mesi quanti sorrisi abbiamo conosciuto, quante mani abbiamo stretto, quanti chilometri abbiamo camminato, quante mani tese abbiamo afferrato per aiutarci a superare un passaggio più difficile del solito, quante pacche sulle spalle ci siamo dati per avercela fatta ancora.
E ancora chissà quante volte ce la faremo, con altri volti, altri amici, altre mani da stringere, altri nomi da imparare, altri momenti da condividere. Arriverà l’autunno e poi l’inverno, il respiro stanco formerà nuvolette davanti al viso mentre i gradi diminuiscono, le temperature si abbassano, gli animali vanno in letargo al calduccio delle loro tane.
Quante cose avremo da raccontarci bevendo un thè al caldo di qualche rifugio, mentre fuori inizia a cadere qualche fiocco di neve, forse con un camino acceso a scaldarci anima e cuore.
Io sto con gli ultimi, questa volta, eravamo poco meno di trenta, bastoni sulle rocce dita sulla tastiera tic tac tic tac tic tac piedi sicuri occhio vigile a scegliere il prossimo passo quanti passi abbiamo fatto e quanto manca alla cima e fammi bere un sorso d’acqua che non ce la faccio più.
Manca poco, credimi. Prenditi il tuo tempo. Non è una gara. Non ti corre dietro nessuno. Respira. Ecco, vedi? Ce l’abbiamo fatta. Anche questa volta.
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