Mettiti comodo, caro lettore, perché lunga sarà la storia che sto per raccontare.
Io, prolisso nello scrivere anche solo di un giorno di cammino, non so proprio come fare a condensare in poche parole quattro giorni – quattro! – di meraviglia naturale e persone meravigliose.
Sarebbe un peccato, in fondo, omettere anche solo un momento, per te che leggi e non eri con noi ma che, curioso di sapere com’è andata, ti ritrovi con questo scritto tra le mani a non saper da dove cominciare a stare – anche solo per un momento – con noi.
C’è una parola che rimbomba forte nel ricordo, Felicità , una parola che fa rumore ed il cui rumore, poi, non si sa com’è. La domanda è presto fatta: che rumore fa la felicità ?
E’ soffio di vento costante e cosciente tra fili d’erba e nude rocce, un fischio sommesso che è sottofondo di pensieri silenziosi che si spargono verso panorami lontani e vicini e rimbalzano a noi, e a te, la testa in pausa dal quotidiano pensare, dieci paia di occhi a fissare oltre le tangibili montagne e ritornare in sé sul versante coperto di un colle, il Des Fontaines, 2.690 metri ritti ed eretti tra Valtournenche e Val D’Ayas.
E’ vento costante e potente tra passi e valichi, due, tre, quattro, tanti che ne perdiamo il conto, mute forme di sella appoggiate e strabiche con un occhio ad un punto e l’altro ad un altro dei cardinali. Est, Ovest, Nord, Sud, contrapposti e ammanicati l’uno all’altro, l’uno inesistente senza l’altro ed in mezzo noi, dieci piccoli esseri traboccanti di meraviglia, stupore, fame di ancora e mai sazi del creato ed osservato.
E’ questa una storia di valichi, potremmo dire, cime niente e niente croci stavolta, un cammino studiato per non andare troppo in su ma per stare all’altezza di ciò di cui potevamo, con leggerezza e felicità , godere.
Chilometri tanti, salite pure, zaini pesanti sulle spalle, passi leggeri a tratti ed a tratti inchiodati a terra da una mente che, pesantemente, pesa sul momento. Rifugi tanti, tante calorie e calore umano, incontri molti e molti i sorrisi, tre le notti e quattro i giorni, dieci i piccoli esseri al cospetto di una natura che dà , e si dà , a chi con occhio meravigliato riesce a guardarla in faccia.
E' questa una storia che inizia e finisce sotto una cascata ed un cartello giallo, saldamente piantato nella roccia, numeri e lettere ad indicare il cammino, occhi felici il primo giorno e lucidi l’ultimo, quando i ricordi si accavallano e sgambettano con la stanchezza e la voglia di casa, una casa che, per quattro giorni, è stata altrove. Casa che è stata il rifugio Ferraro, il Grand Tournalin, il Del Lago. Casa che è stata Résy, Saint Jaques, Chamois, nomi alla francese come un naso impertinente un po’ all’insù, a guardare stelle che si negano e stambecchi che si mostrano, corna incrociate a cozzare forte come i pensieri al Col Pillonet, 2.698 metri, la Valtournenche alle spalle e la Val D’Ayas di fronte, a destra lo Zerbion e a sinistra i ghiacciai che scendono dal Castore, dal Polluce, dal Breithorn, una Capanna Margherita piccola ma abbastanza grande da esser distinta, da occhio allenato, marrone umano su bianco naturale.
Ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli occhi, su questi valichi e su queste selle e su questi colli, ci sono rocce e c’è erba, ci sono nevi lontane e ghiacci perenni e laghi di colore cangiante a seconda di dove e come li guardi. Come il lago che appena arriviamo sembra verde ma inclinando la testa e l’atlante diventa Blu. E finalmente è preso, questo Lago Blu per due volte tentato e per due volte mancato, non era destino allora, era il momento ora. Una morena glaciale e far da contorno ad un piatto squisito, un colore che entra dentro e cambia tutto, una folata di vento ad incresparne la superficie, due gocce di pioggia a chiamarci al ritorno, un anello che si chiude con le gambe sotto al tavolo e conoscenze nuove, due temerarie viaggiatrici dal ginocchio sgangherato, ancora giorni da camminare ed una soluzione nostrana e non strana per portare a casa, anche stavolta, ciò che andava fatto.
Giorni che iniziano in salita, giorni che iniziano piano ed in piano e giorni che iniziano in discesa per poi mutare rapidi in salita verso un rifugio, quel Grand Tournalin del secondo giorno e della seconda notte, appollaiato e nascosto dietro un colle che lo vediamo solo quando ci sbattiamo il naso contro, una valle intera trascorsa ed archiviata in un boccone, sembrava così lontano solo fino a quando non ci siamo arrivati dentro. La birra è d’obbligo, si festeggia una vita nuova che viene al mondo, una foto con il naso all’ingiù e l’obiettivo all’insù, tintinnio di vetri e spumeggiare di luppoli, benvenuta Luna, questo brindisi è per te.
Strana quella salita dopo il pranzo a Cheneil, ogni tratto sembrava l’ultimo, ogni metro sembrava eterno, vento contro, digestione pure, valle e cime a destra e a sinistra bosco, sotto i piedi ciottoli e fatica e voglia di arrivare, alfine, a quel lago che è anche ristoro e ristorante, rifugio e camera da letto, il vento mai domo a soffiare polvere e turbinio di stanchezza verso l’alto e verso valle, una seggiovia scivola nell’aria contro la gravità e noi appoggiati sopra, precari e dondolanti come l’aria stessa.
Strano il tonno pinna blu a 2.000 metri, strano l’abbinamento alla cipolla rossa di Tropea e al mango. Di stranezze ci stupiamo e di stranezze ci nutriamo quella sera che culmina in un compleanno inatteso di un’amica che ha scelto noi, per questi quattro giorni, per valicare anche lei dall’anno prima all’anno dopo. Tintinnio di bicchieri, la solita e dovuta canzone cantata all’unisono, la notte che scende su Chamois e sul mondo intero, da un letto guardiamo una finestra che incornicia un pezzo di cielo e le stelle, per caso, capitate lì.
Passa la notte, s’alza il giorno, una strada – agrosilvopastorale – a risparmiare una discesa e una risalita verso quel Pillonet di cui sopra, la fatica oggi non è salire ma ridiscendere, rotoliamo veloci come pietre lanciate verso valle, la gravità aiuta, questa volta, ma non è grave pensare ad un pranzo, l’ultimo, quello più agognato, quello più sudato, quello più gustato. Finalmente la Val D’Aosta in bocca e nella pancia, il vino scalda e riscalda come il sole sulle spalle, una canzone s’alza nell’aria mentre piedi stanchi, oramai, per inerzia scivolano giù, e giù, e giù fino al parcheggio dove le auto aspettano per riportarci a casa. Un piede in fallo, un culo per terra, una caviglia gonfia e una pronta guarigione per te, amico nostro.
Sgangherato questo racconto, sgangherati questi giorni nel ricordo ma preciso e metronometrico l’avanzare di questa truppa. Una conquista, una vittoria, un altro pezzo di mondo conquistato.
Un’altra storia da raccontare, un altro anno da ritornare.
Di stare bene ci speravamo. Ne eravamo poi sicuri. Ne siamo coscienti, oggi.
Di quanto è bello, in fondo, cercare casa altrove.
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